Come dio comanda

Un film di Gabriele Salvatores.
Con Elio Germano, Filippo Timi, Fabio De Luigi, Angelica Leo, Vasco Mirandola.
Tratto dall’omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti

Drammatico, durata 103 min. - Italia 2008

Recensione a cura di Armando Ermini

Da un’intervista al regista di Federica Lamberti Zanardi (Venerdì di Repubblica del 27 novembre 2008):

Rino Zena ha svastiche disegnate sui muri di casa, una pistola, che «è la vera libertà», il culto della forza fisica. Eppure, alla fine, non si può fare a meno di essere dalla sua parte. Vi accuseranno di essere politicamente scorretti.
«Sì, penso che accadrà e non mi fa paura. Sono sempre stato di sinistra, ma penso sia venuto il momento di riflettere su certe cose».
Anche sul diritto al lavoro degli immigrati?
«Rino non ce l'ha con loro, ma con i padroni, con chi sfrutta il lavoro della povera gente: prima hanno spremuto italiani come Quattro Formaggi, poi sono passati ai romeni, ai cinesi, ai senegalesi. Una lotta fra poveri. Ma il senso di appartenenza alla propria terra, che Rino esprime, è un sentimento nobile, da salvare».
Quando scopre che il figlio in una rissa le ha solo prese, Rino si sente colpevole di non avergli insegnato a difendersi e dice: per saper fare a botte non bisogna essere campioni di karate, ci vuole solo cattiveria. Scorrettissimo.
«Vede, io penso che Rino sia un archetipo che questa società ha rimosso, negando così una vera identità a noi uomini. Lui, per insegnare a vivere a suo figlio, deve dargli il senso del limite, il coraggio, la capacità di superare la sofferenza. Sarà un padre politicamente scorretto, ma è un padre con cui confrontarsi. Pasolini diceva: un po' di bastone ogni tanto, per favore».
Vuole dire che gli anni Settanta hanno dato un colpo mortale alla figura del padre?
«Non ho figli, però se ne avessi uno vorrei avere con lui il rapporto che Rino ha con Cristiano: indissolubile e fondato sull'amore e la fiducia totale. La confusione dei ruoli che è nata negli anni Settanta è stata sicuramente salutare, ma ha portato con sé molti danni, primo fra tutti la fuga dei padri. Vedo intorno a me donne che crescono i figli da sole e soprattutto ragazzi disorientati dall'assenza di qualcuno che dia loro un limite e insegni anche a gestire l'aggressività, la violenza che fa parte della natura maschile».
Lei, che ha raccontato storie di uomini anche in Mediterraneo, che idea ha della «natura maschile»?
«Lo scrittore israeliano Meir Shalev, nel suo romanzo Per amore di una donna, scrive: "I fringuelli, d'inverno, si separano dal coniuge. Mentre le femmine si dirigono verso sud, i maschi rimangono a proteggere il nido e a gelare di freddo, solitudine e nostalgia. Quando la femmina torna, stanca ma piena di sole, lui capisce tutta la riconoscenza che c'è nell'amore". Non è vero che è la donna l'angelo del focolare, sono gli uomini che devono tenere saldo il nido».


Se un intellettuale di sinistra scrive cose come queste, e dirige un film simile, signfica che forse qualcosa sta finalmente cambiando nella coscienza collettiva maschile. Perché, davvero, un film più politicamente scorretto è difficile da immaginare. Un personaggio intenzionalmente sgradevole, da qualcuno definito “padre padrone”, con confuse ma esplicite simpatie naziste e un modo di pensare protoleghista di fronte al quale i radicalchic dei quartieri alti inorridiranno, un personaggio simile, dicevo, è capace di amare perdutamente suo figlio, con quella tenerezza ruvida che sa tenere insieme incitamenti forti a lottare, rimproveri anche aspri e lacrime di commozione. Un mix che solo un padre può essere capace di offrire al figlio maschio. E non importa che le circostanze della vita abbiano spinto Rino Zena verso idee che più sbagliate non si può. Anzi, proprio la coabitazione nello stesso personaggio di idee e sentimenti che secondo i paradigmi culturali buonisti (e ipocriti) si escluderebbero a priori, è funzionale a fare emergere una verità “impensabile”. Il legame fra padre e figlio va ben oltre le idee professate. Si nutre invece dell’amore e dell’interesse autentici che circolano fra di loro e che entrambi percepiscono, e si nutre del fatto che un padre deve saper offrire al figlio un modello di vita e di comportamento, anche discutibile o sbagliato ma riconoscibile, e che il figlio senta come autentico. Da accettare o anche da respingere, ma con cui potersi in ogni caso confrontare. Come dice Salvatores in un passaggio dell’intervista, è proprio quello che la società attuale, mediante la svalutazione di tutto ciò che è paterno, nega ai giovani maschi. E nega loro così la cosa più importante, la possibilità di formarsi una salda identità di genere, facendone degli uomini incerti e oscillanti fra remissività ed esplosioni di violenza incontrollata.
Ma, ci dice il film, quel legame è così essenziale che è destinato comunque a riemergere, anche quando tutto sembra spingere in senso contrario. Non solo i problemi di sopravvivenza quotidiana, non solo metodi educativi desueti, ma anche l’ambiente in cui si svolge la vicenda; un paesaggio cupo e livido, spersonalizzato ed alienante, “non luoghi” fatti di fabbriche, ciminiere, cumuli di detriti, che richiamano alcune immagini di “Deserto rosso” di Michelangiolo Antonioni o in campo letterario “Die waste land” di T.S. Eliot. E come spesso accade nella vita degli uomini, sarà l’irruzione dell’elemento femminile a fare da catalizzatore di sentimenti e passioni e svelarne il loro lato più vero, nel bene e nel male.

[18 dicembre 2008]