A proposito di Madri Selvagge

Su Il Foglio di venerdì 24 febbaraio 2006 Roberta Tatafiore e Eugenia Roccella discutono del libro di Paola Tavella e Alessandra di Pietro, “Madri selvagge.

Contro la tecnoterapia del corpo femminile” (Einaudi). Tavella e Di Pietro, durante la campagna referendaria sulla legge 40, si dichiararono favorevoli all’astensione suscitando un forte dibattito fra le donne, ma non solo. Questo libro ripropone quel “discorso” sulla vita declinato al femminile, a partire dal filone del pensiero femminista “della differenza” che, molto presente negli anni ’70, sembrava poi aver perduto incisività e visibilità.
Non ho ancora letto il libro, ma a me sembra che gli articoli di R. Tatafiore ed E. Roccella espongano e delimitino con chiarezza il terreno di discussione fra le donne sul tema della vita, ma al tempo stesso, anzi proprio per questo, ne facciano emergere le contraddizioni.
Alla base del pensiero delle autrici del libro c’è una intuizione che Roccella valorizza e di cui, a mio parere, non si può non apprezzare la fecondità. Il femminile, a partire dal corpo, esprime una irriducibile diversità rispetto al maschile, ed ha prodotto, da sempre, un “sapere” di genere specifico, sapere che, inevitabilmente, passa attraverso l’esperienza di un corpo predisposto alla maternità. Non per esaurire in essa ogni altra potenzialità , ma perché da essa nasce l’originalità della concreta presenza femminile nel mondo. E’ in questo contesto che si colloca sia la discussione sull’aborto che quella sulla procreazione artificiale. Ha infatti grande significato simbolico, e quindi concreto, che negli anni ’70 una parte del movimento delle donne preferisse parlare di depenalizzazione piuttosto che di legalizzazione delle pratiche abortive. Depenalizzazione significa che “l’interruzione di gravidanza non è un diritto ma una contraddizione ineliminabile, che appartiene all’anomalia femminile di un corpo capace di essere due in uno”, ma anche che il legame tra “la maternità come libera scelta e l’idea che l’aborto sia ancora il meglio che possiamo chiedere in questo campo”, non è affatto automatico, come induce invece a considerare il concetto di legalizzazione, e come è infatti apparso in questi decenni. Madri Selvagge, dice Roccella, è anche un tentativo per far capire alla sinistra che i vecchi schemi interpretativi sono obsoleti, così come la divisione fra pro-life e pro-choise, e vuole essere un avvertimento forte contro i pericoli di appiattimento in modo acritico sulla tecnoscienza. La procreazione artificiale non è solo una pratica spesso invasiva del corpo , ma prima ancora è sottrazione alle donne dello specifico sapere femminile.
E’, quest’ultimo, un argomento forte che oltrepassa le questioni di genere per investire il modo di essere stesso della modernità. La tecnoscienza agisce ora direttamente sul corpo individuale riproducendo al suo esterno alcuni processi naturali (non solo femminili), e poi usando il corpo della donna, in attesa dell’utero artificiale, come contenitore; ma il processo di espropriazione dei saperi di genere, e con esso la modifica seppure indiretta dei corpi, è in atto già da tempo.
Penso al Foucault della medicalizzazione del corpo e della “volontà di sapere” per esercitare il controllo, o allo studio scientifico dei movimenti del corpo del soldato per renderli funzionali alla macchina militare, ma anche a quanto scriveva Ivan Illich a proposito dell’antico sapere “vernacolare” (di genere), che la società industriale ha sostituito col sapere neutro necessario al lavoro neutro dei moderni apparati produttivi.
Penso, allargando ancora il discorso in modo che non mi sembra arbitrario, al P.P. Pasolini dell’omologazione dei corpi, che mentre prima incarnavano nella fisionomia uno specifico “sapere” di classe o di ceto, e quindi una specifica cultura o subcultura, ora sono indistinguibili l’uno dall’altro, unificati dalla modernità in una unica melassa di “non cultura” piccolo borghese (in parallelo ai luoghi divenuti “non luoghi”, aggiungo). Penso ancora, infine, a quanto scriveva Marx a proposito del processo di separazione del produttore dalla proprietà dei mezzi di produzione e della conseguente divisione del lavoro, con l’espropriazione di conoscenza degli antichi proprietari/lavoratori, conoscenza che riappare polarizzata e concentrata nel Capitale , anch’esso sempre più funzione astratta.
La fabbricazione artificiale della vita mi sembra dunque essere lo stadio finale di un processo che investe l’intera umanità senza distinzione di sesso, e che rompe il “patto” antropologico che aveva retto l’umanità fino ad oggi. Si può infatti discutere se il “mercato” è il modo naturale con cui gli uomini regolano i loro rapporti economici o se è una costruzione “culturale”, ma non c’è dubbio che la separazione fra procreazione e sessualità rompe la naturalità del processo.
Date le premesse non dovrebbe sorprendere troppo - dice Roccella- la” nuova e strana alleanza tra cristiani, soprattutto cattolici, e femministe radicali (spesso lesbiche, no-global, ecologiste), uniti contro l’artificializzazione dell’umano.
Il nemico di oggi, non ha il volto del papa ma quello dell’imbroglione coreano Hwang-suk, si nutre di divulgazione scientifica fasulla, nomina le cellule staminali senza mai specificare se embrionali o adulte, racconta che la RU486, che ha già ucciso 11 donne, rende l’aborto facile e indolore, parla di donazione di ovuli azichè di compravendita, vuole il controllo tecnico e politico della fertilità femminile.W

Tutto a posto, dunque? Tutti dietro Tavella e Di Pietro?
Non esattamente. Roberta Tatafiore, favorevole ai referendum abrogativi della legge 40, ha il merito di individuare alcuni punti di criticità nelle tesi delle autrici di Madri Selvagge e, sebbene da un punto di vista opposto al mio, centra lucidamente l’essenza della posta in giuoco quando scrive che “Si gioca sull’embrione una lotta politica fra sistemi di valori che coinvolgono uomini e donne nella questione “quando inizia la vita”.
Tatafiore è fra quelle donne che assumono con onestà intellettuale la tesi dell’uguaglianza. Così facendo non coglie che la differenza è potenzialmente arricchente per entrambi i generi, semplifica troppo la questione della dialettica fra i sessi, ma al tempo stesso rifiuta coerentemente di considerare le questioni della vita come di esclusiva competenza femminile e coglie quanto di sbagliato e contraddittorio esiste nella specifica declinazione femminista della teoria della differenza, che coinvolge anche Paola Tavella e Alessandra Di Pietro.
Prima di tutto una sorta di mistica della maternità come saggezza “salvifica per la specie”. Se esiste, ed esiste, un così alto potere materno, perché allora, si chiede la Tatafiore, il mondo viene descritto come un immondezzaio, la responsabilità del quale sarebbe tutta “degli uomini brutti e cattivi e dei loro epigoni tecnoscienziati e tecnomedici?
Nello stesso alveo di pensiero si situa la convinzione delle autrici di Madri Selvagge , come titola il capitolo del libro: “Se l’embrione deve essere di qualcuno sia delle donne”, che ad esse competa ogni decisione in merito ai figli non ancora nati. Da qui la certezza, al di là del dibattito fra depenalizzazione e legalizzazione, che sia giusta la totale esclusione del padre voluta dalla 194, e quella che tutto l’attuale discutere intorno all’embrione sia una contesa fra maschi per far fuori le femmine.
Se la questione essenziale riguarda l’inizio della vita e se “Tavella e Di Pietro iscrivono l’inizio della vita nel tabù che la rende un mistero inviolabile…. Allora perché l’embrione deve essere della donna? Perché è lei che rappresenta il sacro in terra e perché la si ritiene portatrice di una superiorità bioetica. Puntigliosamente estranee alla scena del mondo, così selvagge da risultare simpatiche, le madri di questo libro mi sembrano però un tantino onnipotenti”, conclude la Tatafiore.
Difficile darle torto. Difficile non vedere le secche in cui si insabbia il dibattito interno al movimento delle donne quando o non è capace di pensare la differenza o la pensa in termini di superiorità/inferiorità. In un caso sottostà alla tendenza omologatrice del pensiero unico, nell’altro contraddice in modo eclatante il credo antigerarchico ed egualitario di cui il femminismo accredita se stesso.
Ed anche la convergenza di idee con la Chiesa sulla necessità di opporsi all’artificializzazione dei processi riproduttivi e sulla conseguente salvaguardia dell’integrità del corpo femminile, dovrà fare i conti con almeno due capisaldi della religione cristiana. Il primo è che ponendo l’inizio della vita umana individuale all’atto del concepimento (con buoni argomenti anche scientifici) e dichiarandola immediatamente degna di tutela, ne discende che l’embrione è soggetto autonomo di diritti. In quanto tale, pur tenendo conto dello speciale statuto che discende alla madre dal fatto di accogliere il figlio nel suo corpo, il padre è chiamato a concorrere attivamente alle decisioni che concernono la tutela dei suoi diritti, non ponendosi neanche, per la Chiesa, il dilemma sulla liceità di decidere se debba vivere o morire.
Il secondo caposaldo è che il messaggio di salvezza del Cristianesimo si fonda sul rapporto fra Padre e Figlio, e qualsiasi tentativo di negare questa evidenza o di storicizzarlo per riassumerlo modificato in una generica asessualità di Dio e di Cristo, significa semplicemente negare la sua essenza. Non può dunque esistere alcuna superiorità bioetica femminile, né alcuna pretesa del genere femminile di considerarsi come rappresentante in terra del Sacro, almeno per ciò che Sacro significa per un cristiano. Un incontro fra “femminismo della differenza” e Chiesa, che non sia soltanto occasionale convergenza su un punto specifico, ha insomma come condizione quella dell’abbandono da parte del primo di uno dei fondamenti su cui è cresciuto, la superiorità bio-etica del genere femminile.
D’altronde, anche da un punto di vista laico, soltanto considerando l’embrione alla stregua di una cosa, o meglio di uno scimpanzè, è possibile ammettere la sua manipolabilità a fini scientifici, considerarlo sopprimibile a piacimento o delegare ogni decisione che lo riguarda soltanto alla persona che ne è in temporaneo possesso. Ma ciò urta sia contro la verità che la scienza ci mette in grado di avvicinare, sia contro l’evidenza del coinvolgimento profondo che proprio le donne rivendicano, sia contro il dolore del maschio che, finalmente, inizia a manifestarsi quando gli viene negata la paternità. Non ci si sente padri di una cosa o di uno scimpanzè, ma di un essere umano.
Mi sembra che l’unica via di uscita dal groviglio di contraddizioni in cui l’umanità moderna è avviluppata, sia quello della rinuncia all’onnipotenza ovunque si annidi, e dell’accettazione dell’esistenza di un limite che è fuori di noi, che è poi anche la condizione di una vita psichicamente adulta e la condizione per accettare l’altro dentro di noi.

Armando Ermini

[03 marzo 2006]