A proposito di madri assassine

Dal Corriere della Sera del 28 Maggio 2005

Le rivelazioni di Brooke Shields in un libro che racconta la sua esperienza «Soffrivo e pensavo di uccidere mia figlia»

NEW YORK - Nessuno più di lei può capire la mamma di Lecco che ha ucciso la sua creatura. Nessuno, meglio di Brooke Shields conosce il misto di vergogna, sensi di colpa, impotenza e perdita paralizzante d’autocontrollo che devono aver accompagnato Maria Patrizio.

«Quante volte mi sono trovata a fantasticare la morte della mia neonata, che avevo desiderato più di qualsiasi altra cosa al mondo», scrive la 39enne star di Pretty Baby e Laguna Blu nel suo nuovissimo libro che sta destando molto scalpore in America, «Down came the Rain». La cronaca del suo viaggio nel tunnel della depressione post partum: una sindrome che secondo gli scienziati del Centers for Disease Control di Atlanta affligge tra il 50 e l’80% delle donne. Il 15% in maniera tanto grave da avere indotto stati come la Pennsylvania e il New Jersey a varare leggi speciali per depenalizzare i crimini commessi in questo stato di «handicap mentale».

«Dopo la nascita di mia figlia Rowan, nel 2003, sono caduta in un pozzo nero», spiegato la Shields. «È stato il periodo più buio e disperato della mia vita - incalza -, ho pensato più volte di suicidarmi». Alle fantasie autolesioniste, la Shields alterna sentimenti distruttivi simili a quelli che hanno spinto Maria Patrizio ad uccidere. ...Un’altra volta, mentre ero seduta sul divano, ho avuto una visione: m’immaginai di prendere Rowan e di scagliarla contro un muro, per poi guardare il suo corpicino scivolare giù, come in un videogioco».

«Subito dopo la sua nascita non la volevo più», spiega ancora la star. «Non la volevo nemmeno prendere in braccio, e pregavo che qualcuno la rapisse o che sparisse. Fantasticavo spesso di darla via in adozione»…quando l’infermiera le porge quel bozzolo tutto riccioli e gridolini, la neomamma non prova alcun sussulto di gioia. E l’apatia emotiva prosegue anche dopo, quando torna a casa dall’ospedale. «Appena ho visto mia figlia, la prima cosa che ho pensato è stata "non credo che ce la farò mai ad essere sua madre". Non provavo alcun sentimento nei suoi confronti e volevo morire perché mi sentivo in colpa. Rowan era cresciuta dentro il mio corpo, ma era una estranea totale». ...«Io ho avuto un enorme sostegno da parte di mio marito, della mia famiglia e dei miei amici - dice la Shields, - senza di loro forse oggi non mi troverei qui».

Un consiglio alle mamme in preda al baby-blues? «Non siete sole. Parlare con altre donne nella vostra situazione, apritevi come ho fatto io e vi accorgerete che sognare di far male ai vostri bebé è un sentimento molto comune e diffuso. Soltanto ammettendo apertamente quei mostri, potrete riuscire ad esorcizzarli».
Alessandra Farkas

Scrive in proposito Lorenzo Raveggi: Avete capito bene: DEPENALIZZAZIONE PER GLI INFANTICIDI MATERNI! E ciò sulla base di un (mai provato biologicamente) disturbo psichico che, guarda caso, nelle vituperate "civiltà patriarcali" non si registrava in alcun modo. Il mio dubbio è dunque che questa sindrome abbia cause più culturali che biologiche (aspettative femminili di carriera e di libertà individuali - indotte dal Femminismo - messe in crisi dall'arrivo di un figlio, nonché incapacità di assumersi responsabilità adulte nei confronti di un'altra vita indifesa). Ma supponiamo che, invece, alla base di questa specifica sindrome criminale femminile, via sia effettivamente una causa "biologica" . Ebbene, io credo che TUTTI i crimini e le devianze sociali siano in fondo originati da qualche grave malessere o disturbo psichico dell'individuo, quasi sempre riconducibile (in qualche modo) a qualche anomalia organica di base. Nella stragrande maggioranza dei casi, quella stessa "anomalia organica" non causa necessariamente né disturbo psichico né, tantomeno, comportamenti devianti. Ma, in determinati soggetti, sottoposti a circostanze ambientali e condizionamenti culturali particolari (magari in sé NON-criminogeni ed innocui per la stragrande maggioranza degli altri individui), scatena il comportamento anti-sociale/criminale. Ciò evidentemente non diminuisce la "responsabilità individuale", che è la base della civile convivenza.
Perciò varare la depenalizzazione nei confronti della "sindrome delle mamme-assassine" (come sembra abbiano fatto Pennsylvania e New Jersey) equivale esattamente - da un punto di vista etico - a depenalizzare lo stupro ed i crimini sessuali commessi dagli uomini, posto che è provato che essi hanno un più alto tasso di testosterone.
E' ogni giorno più stupefacente lo strabismo occidentale nei confronti del male femminile e maschile. Un impazzimento generale di cui i più non si rendono oramai nemmeno conto.

LORENZO

Le considerazioni di Lorenzo sono ineccepibili, a fondamento di un qualsiasi vivere civile in cui ogni soggetto adulto è chiamato ad assumersi le proprie responsabilità in quanto persona. Nelle vicende delle madri assassine c’è però anche un altro aspetto, ben sintetizzato dalla psicanalista Giuliana Kanzà su La Stampa del 26 maggio 2005. Scrive la dott.ssa Kanzà: “Semplificando potremmo dire che la donna è diversa dall’uomo perché è strutturalmente più vicina all’essere, all’amore, e che per contro è meno sottoposta ai legami della legge, questa intesa in senso universale, simbolico. Così, nel versante dell’amore, è capace di debordare nell’odio quando la sua angoscia non è presa in carico dall’uomo...Prendiamo…la famiglia per eccellenza, Maria, Giuseppe e Gesù. Giuseppe si è preso carico dei problemi di Maria, l’ha guidata in Egitto, ha organizzato il viaggio, si è preso carico dei problemi di Maria. Il disagio della società moderna è che l’uomo ha abdicato a questo compito e viene meno alla sua funzione di padre, punto di riferimento per se stesso, per la madre e per il bambino”.

Queste considerazioni, ma soprattutto queste realtà, spazzano via decenni di teorizzazioni sulla preponderanza del fattore culturale rispetto a quello biologico, sul fatto che non ci sarebbero differenze fra maschile e femminile se non quelle imposte dal patriarcato. Inficiano anche, di conseguenza, le tesi sull’intercambiabilità di ruoli e funzioni fra maschi e femmine, fra padri e madri, con tanti saluti all’impianto filosofico delle “pari opportunità. Teorizzazioni relativamente recenti, nate e sviluppatesi parallelamente alla nascita e allo sviluppo della società industriale moderna prima, e post/industriale e post/moderna poi, laddove per la prima volta nella storia le esigenze dell’apparato produttivo e la necessità di creare in continuazione nuovi bisogni e nuovi “mercati” per sostenere la crescita dei profitti, hanno imposto la concezione di un individuo sessualmente neutro, astratto e avulso sia dalla sua natura biologica sia dalla sua storia culturale, come se quest’ultima fosse stata il prodotto di un’imposizione discriminatoria e oppressiva e non la risultante di fattori diversi e complessi, comunque di interazione fra natura e cultura. Molte donne e gran parte del femminismo (ed anche, purtroppo, la maggior parte degli uomini), hanno finito per sposare, o nel caso maschile per subire, queste teorie emancipazioniste che puntano all’omologazione o, nel peggiore dei casi, all’uso strumentale e di comodo della dialettica uguaglianza/differenza. Il risultato è stato da un lato la difficoltà a far emergere l’ombra (in questo caso quella femminile dell’ambivalenza fra amore e odio verso il figlio), con il pericolo che esploda in modo incontrollato. Dall’altro la svalutazione della funzione equilibratrice del maschile, essenziale, come dice la Kanzà, per assumere l’angoscia femminile e consentire la sua elaborazione psichica. Qui sta una contraddizione irrisolvibile nel presente contesto culturale. Il maschio come artefice dell’oppressione del genere femminile ma insieme come suo “protettore” dall’angoscia e come portatore dell’ istanza di universalità , e quindi di oggettività, della norma, senza la quale nessuna cultura sarebbe possibile ed il genere umano sarebbe ancora al Kaos matriarcale del legame di sangue come unico vincolo. La realtà della vita ci dice che femminile e maschile, invece di farsi concorrenza sullo stesso terreno, fattore di incomprensione, di vicendevoli rancori e della comune sensazione di sentirsi fuori posto, dovrebbero incontrarsi nella consapevolezza di essere diversi e complementari nel legame di relazione ed anche, per grandi linee, nell’approccio e nelle priorità delle scelte “sociali”. Senza farsi condizionare, e vale per tutti, da modelli e stili di vita che rispondono a necessità esterne (l’apparato produttivo) e non alla esigenza profonda di cercare e trovare il proprio sé.

Armando Ermini

[06 giugno 2005]