Abortire causa soldi, ma solo per quello?

Una ventinovenne napoletana, diplomata e con studi universitari alle spalle, figlia di un ingegnere deceduto quindici anni orsono e di una bancaria in pensione, ha scritto una lettera al Presidente Napolitano, preannunciandigli che ha deciso di abortire causa le deficitarie condizioni economiche.

Lei e suo marito, entrambi precari, guadagano 1300 euro al mese in due ed anche se non pagano nulla per la casa, ritengono di non poter mantenere dignitosamente il bambino.
Nella lettera si legge, fra l’altro:
"Presidente, ora devo scegliere se essere egoista e portare a termine la mia gravidanza sapendo di non poter garantire al mio piccolo neppure la mera sopravvivenza, oppure andare su quel lettino d'ospedale e lasciare che qualcuno risucchi il mio cuore spezzato dal mio utero sanguinante, dicendo addio a questo figlio che se ne andrà per sempre".

L’ha intervistata Laura Laurenzi su La Repubblica del 30 aprile 2008. Riportiamo alcuni stralci dell’intervista:

Ha una famiglia alle spalle, un uomo che la ama, una casa. E' sicura di una decisione così importante?
"Mi prenderò questo periodo di tempo per riflettere………... Nel frattempo mi chiedo: dove è andata a finire la mia dignità?.... Dopo avere fatto tanti sacrifici…… mi ritrovo a non avere i mezzi per crescere un figlio. ….

Con duemila euro al mese non abortirebbe?
"Sicuramente mi terrei il bambino. La mia, oggi, è una scelta iper obbligata. Mio marito è più deciso di me…….. In altri paesi le coppie vengono aiutate, qui si parla tanto di baby bonus ma poi nei fatti non succede niente…

Suo marito l'ha accompagnata?
"Purtroppo non poteva assentarsi dal lavoro, che ha trovato da poco……….Noi di questa generazione occupiamo ruoli sociali molto inferiori rispetto ai nostri genitori ………Amo moltissimo i bambini: ti riempiono la vita, sono splendidi. ….".


Non ha pensato alla possibilità di farlo nascere e poi darlo in adozione?
"Non lo farei mai. Mai, per nessun motivo. Sapere che esiste da qualche parte nel mondo un mio bambino e io non mi occupo di lui sarebbe lo strazio peggiore".

La lettera a Napolitano e l’intervista pongono un problema vero, perché la precarietà del lavoro è un grave ostacolo a progetti di vita che includano anche i figli. Tuttavia, senza giudicare quella ragazza che non conosciamo (e comunque non avremmo titolo alcuno per farlo), le sue parole meritano più di una riflesssione, perché contengono tutte le tematiche che ruotano intorno all’aborto.

La prima sensazione è, come dice lei stessa, che si sia trattato di uno sfogo in un momento di rabbia e di sconforto. Speriamo che lo superi, magari con l’aiuto e il conforto di qualcuno, perché sarebbe davvero ingiusto far pagare al bambino le colpe di una società che non sa più offrire certezze ai suoi cittadini. L’amarezza di Sandra è comprensibilissima, eppure va anche detto che le sue condizioni economiche , seppur precarie, non sono tragiche. Non paga nulla per la casa, ha una madre che la potrebbe aiutare finanziariamente e forse non solo. Senza sottovalutare la sua, occorre ammettere che esistono situazioni ancora peggiori di degrado economico ed anche culturale. E’ dovere dell’intera comunità farsi carico il più possibile delle difficoltà materiali delle famiglie, ma se invece dei 2000 euro, secondo i criteri di quella ragazza ce ne volessero 3000 ? In altre parole, è giusto, mi chiedo, far dipendere una vita umana da percezioni e bisogni soggettivi, quindi variabili da persona a persona?

Ma nelle parole della ragazza napoletana si colgono anche altri aspetti. Sarebbe egoistico, dice, far nascere il bambino. Dunque ucciderlo, e neanche perché handicappato o destinato alla sofferenza fisica ma solo perché povero, sarebbe invece un atto di altruismo. E’ il rovesciamento di senso che impressiona. “Ti uccido per il tuo bene!”. Seguendo lo stesso filo di ragionamento, sarebbero allora da eliminare gli handicappati, i poveri, e tutti coloro per i quali la “qualità della vita” è insuficiente. E’ questo il punto. La vita ormai non ha più valore in sé, è subordinata a standard o decisi a tavolino da protocolli burocratici (è il caso delle leggi su l’eutanasia) o, come in questa circostanza, lasciati alla percezione soggettiva che finisce irrimediabilmente per conformarsi all’idea media, naturalmente variabile nel tempo. Intaccato il principio si scivola sempre più velocemente su un piano inclinato, e si materializza lo spettro dell’eugenetica, che è tale anche se la selezione non è imposta dallo stato ma “spontanea”.

L’ultima frase dell’intervista tocca un altro aspetto che nulla ha a che fare con la povertà.
Partorire il figlio e darlo in adozione (come consente la legge), sarebbe, dice la ragazza, lo strazio peggiore. Peggiore per chi? Non certo per il bambino, che potrebbe anche trovare genitori benestanti e amorevoli. Lo strazio in questo caso è tutto della madre, e non c’entra il diritto a rifiutare la maternità, che sarebbe garantito. C’entra invece la concezione della maternità come proprietà del figlio, di cui disporre a piacimento. Nel medioevo, tempo definito “oscuro”, c’erano le ruote degli innocenti dove le madri impossibilitate a tenere il figlio lo affidavano pietosamente alla comunità. Oggi si preferisce ucciderlo. In quel tempo l’archetipo del padre era forte, questa è la differenza. Perché la madre è istintivamente portata a considerare il figlio come “cosa” sua, e solo l’intervento del padre può operare il distacco, salutare ferita inferta ad entrambi. La società moderna il padre lo ha prima emarginato, poi dimenticato. Le sue strutture sociali ed anche la psiche collettiva sono organizzate intorno al principio materno del bisogno e della sua soddisfazione, e ciò inevitabilmente implica un mutamento di percezione del senso degli eventi.
Da questo punto di vista viviamo un tempo di regressione a uno stadio pre-culturale, che solo l’affermarsi dell’archetipo paterno e della società del padre ha consentito di superare.

La cosa più sconcertante, in questa e in vicende simili, è il profondo mutamento culturale avvenuto in questi ultimi decenni. Ciò che un tempo era non pensabile, o era comunque vissuto entro strutture sociali che contenevano/incalanavano le pulsioni più ancestrali, ora appare normale e scontato.
Lo chiamano “progresso”.

Armando Ermini

[05 maggio 2008]