Alcune riflessioni intorno al significato del nonnismo al femminile
Dopo Abu Graib, finalmente anche da noi prosegue il processo di “emancipazione femminile”, per fortuna in modo meno cruento ma comunque significativo.
Una caporalessa della Folgore, di stanza a Siena, è stata denunciata per nonnismo nei confronti di una recluta maschio, “colpevole” di averle chiesto l’uso di un telefono. L’intrepida paracadutista, dopo aver costretto il commilitone ad eseguire , per punizione, una serie di flessioni, l’avrebbe colpito con diversi calci al costato, che gli sono valsi il ricovero in infermeria.
Dunque le donne, in situazioni “favorevoli”, ancora una volta si dimostrano inclini non meno dei maschi a pratiche aggressive, con buona pace di chi vede in loro il genere “innocente” per definizione, alieno dalla violenza e dalla prepotenza maschili. Qualcuno vorrà ancora sostenere che le donne in questione non sono tali, che hanno tradito il loro genere, che sono state fagocitate dal maschilismo, insomma che sarebbero più vittime, consapevoli o no, che colpevoli. A parte la comodità di una teoria tanto strampalata quanto svalutativa delle stesse donne, considerate incapaci di scegliere coscientemente il male, crediamo che dopo le kapò dei lager nazisti, i massacri in Ruanda, le torture in Irak e a Guantanamo, le terroriste kamikaze e così via, nessuno possa più ragionevolmente prestare fede a questa mitizzazione della innata bontà femminile.
L’episodio, però, mi suggerisce altre e più importanti riflessioni. La prima è, naturalmente, che male e bene fanno parte della natura umana, che le pulsioni aggressive sono dentro noi tutti, e che ognuno ha il dovere di confrontarcisi, senza demonizzarle ma anche senza sentirsene esenti. Come non esiste il genere che incarna il male, rieducato il quale si aprirebbero le porte alla felicità, così non esiste il genere che incarna il bene, nel quale riporre tutte le speranze di salvezza . La salvezza è dentro ciascuno di noi, maschio o femmina, e per i credenti è nel figlio del Padre, Cristo, che offre sé stesso all’umanità.
La seconda è che il tanto vituperato patriarcato, aveva almeno un “pregio”. Quello di esentare il genere femminile dal confronto col male. Là il lavoro “sporco” era riservato ai maschi, mentre le donne “oppresse” potevano coltivare la delicatezza dei “buoni sentimenti”. Se non altro, però, quelle donne sembravano nutrire una sorta di riconoscenza per questo privilegio che era loro concesso. Il patriarcato, si legge, è morto definitivamente, ma non sono morte le credenze che aveva generato. Così, mentre da una parte prosegue la lotta per “l’uguaglianza”, condotta essenzialmente contro quella che viene ancora definita l’oppressione maschile, dall’altra si continua a proclamare la diversità femminile, che si sostanzierebbe in una innata superiorità morale.
Lasciamo stare le contraddizioni pratiche di cui è intessuta questa visione, che stridono in modo evidente con la realtà di tutti i giorni. (perché non viene coerentemente rivendicata, ad esempio, la presenza di donne soldato in prima linea, ma ci si “accontenta” dei posti in retrovia, più comodi ed egualmente retribuiti?).
Mi preme di più rilevare che la tendenziale scomparsa del sapere di genere, l’omologazione forzata sotto il segno del consumo, la scomparsa di codici simbolici propri del maschile e del femminile, non solo genera “mostri” unisex, ma ha anche spazzato via quella rete protettiva comunitaria che produceva solidarietà di genere, fungendo anche da contenimento e compensazione dell’aggressività. Lasciata a se stessa, questa si scarica ora in modo incontrollato.
Penso, ad esempio, allo spirito di corpo che in passato contrassegnava l’esercito, e che produceva innumerevoli episodi di solidarietà , di sacrificio eroico della propria vita per salvare quella del commilitone, come testimoniano le cronache di guerra. Ma penso anche alla rete protettiva stesa dalla comunità delle donne nei confronti delle compagne, dalle neo mamme segnate dalla depressione post/parto, a quelle alle prese coi problemi di accudimento della casa e dei figli, e che hanno evitato tanti drammi che segnano la vita odierna.
Credo che tutti dovremmo riflettere su questi aspetti. L’uguaglianza prospettata in questa società è una falsa uguaglianza, che nuoce tanto al maschile quanto al femminile, che dovrebbero invece trovare una strada autonoma, consona al proprio genere pur nella pari dignità, e recuperare il concetto di complementarietà. Il ciclo storico che vedeva nel “gender” una pura costruzione culturale, l’adesione al quale era una scelta soggettiva sganciata dall’appartenenza sessuale, sta mostrando tutti i suoi limiti. Sul piano culturale è stato un inganno, se non altro perché non è mai riuscito a spiegare il perché quella divisione si è riprodotta in modo analogo in tutte le culture. Ora, però, diventano evidenti anche le conseguenze nefaste che una simile “cultura” ha prodotto nella vita concreta di uomini e donne.
Armando Ermini