Le conseguenze della guerra sui maschi “oppressori”

Anche questa volta, per l’Iraq, si sta ripetendo lo stesso fenomeno di tutte le guerre moderne, dalla prima guerra del Golfo al Vietnam. I reduci, gli ex combattenti, tornano a casa e…… diventano un problema sociale.

Nel caso dell’Iraq ( e dell’Afghanistan) oltre ai soldati morti e feriti, come sempre quasi esclusivamente maschi, ci sono circa 25000 rimpatriati per invalidità “non da combattimento”(1), fra cui gravi problemi psichici quali la tendenza al suicidio o i “post traumatic disorders”. Ed ancora sono stimati in circa 100.000 quei reduci apparentemente sani che hanno chiesto aiuto ai servizi di assistenza del Dipartimento Veterani in quanto sprovvisti di assicurazione privata contro le malattie.
Non solo, dunque le gravissime malattie fisiche come quelle provocate dall’uso dell’uranio impoverito, ma patologie psichiche devastanti colpiscono molti degli uomini impiegati in guerra. Se fino ad ora sono stati “solo” 9.600 i militari che hanno richiesto cure per i disturbi mentali da battaglia, secondo uno studio dell’esercito apparso sul New England Journal of Medicine, solo il 20/25% dei soldati che ne avrebbero necessità chiedono spontaneamente assistenza psichica a causa del diffuso pregiudizio che circonda questo tipo di malattia, ed è lo stesso Pentagono ad attendersi che circa il 18% dei reduci svilupperà in futuro disturbi psichici.
Keith Huff, un soldato che ha prestato servizio in Iraq per un anno, ha dichiarato:
«come potevo dire a mia moglie che aveva sposato un assassino, e un ottimo assassino? Cosa ho vissuto lì, e quando sono tornato, non posso nemmeno spiegarlo. Tutti noi che torniamo fatichiamo molto a inserirci nel! vostro mondo, siamo tutti alienati. Per me è stato difficilissimo reinserirmi nel vicinato».
Secondo un'inchiesta interna dell'armata pubblicata da Stars and Stripes (la rivista ufficiale del Pentagono destinata alla truppa) nel dicembre 2005, il 21 % dei reduci, dopo un anno dal ritorno, presentavano problemi di alcolismo.
Il 21 % accusava eccessi di rabbia e aggressività incontrollata.
Il 15 % aveva divorziato dalla moglie.
Un fenomeno simile accadde ai tempi della guerra del Vietnam, aggravato dalla colpevolizzazione sociale dei combattenti, diventati simboli (e scomodi testimoni) di una guerra che si volle far di tutto per dimenticare. Allora molti di quei soldati furono abbandonati a se stessi, ed ora il dott. Scott, della clinica per reduci di Tampa, teme la stessa cosa. Che dopo il primo momento, visti i costi altissimi necessari per i programmi di cura e di riadattamento, sopravvengano tagli alle risorse e quegli uomini vadano ad aumentare il grande serbatoio di disadattati pronti a delinquere.
Non importa cosa si pensi della guerra in generale o di questa o quella in particolare. Se si è per la pace sempre e comunque oppure si distingue fra guerra giusta e ingiusta, di difesa o di aggressione, umanitaria o imperialista, democratica o fondamentalista.
Il fatto è che migliaia e migliaia di uomini hanno sacrificato la propria vita in guerra, e comunque la si pensi rispetto alle sue cause, quei maschi vanno onorati e rispettati.
E la si smetta una volta per sempre col luogo comune paleo e neo femminista secondo il quale la guerra sarebbe uno dei simboli per eccellenza del dominio patriarcale e dell’oppressione contro le donne.
Non si è mai visto un ceto dominante ed oppressore scegliere deliberatamente di pagare un prezzo così esorbitante e nello stesso tempo cercare di tener fuori dai rischi il ceto oppresso.
I maschi non amano lamentarsi per aver fatto il loro dovere, né essere compianti. Si accontenterebbero che la società tutta riconoscesse di avere con loro un debito morale.

Note
1) I dati statistici e le citazioni sono tratti da: La tragedia dei soldati americani
di Maurizio Blondet [10/02/2006]
Fonte:effedieffe.com

Armando Ermini

[23 febbraio 2006]