Il Gioco delle torri

Dalla rubrica info/psiche lui, Io Donna, allegato al Corriere della Sera, 19-01-02
E’ possibile scrivere a Claudio Risé, rubrica Psiche lui, Io donna, RCS Periodici, via Rizzoli 4, 20132, Milano

«Quando ho visto al telegiornale la storia di Charles, il quindicenne americano che ha pilotato un aereo Cessna contro un grattacielo di Tampa, in Florida, mi sono sentito quasi male. Mi è infatti venuto in mente che il giorno di Natale anche mio figlio di nove anni ha scaraventato con precisione l’aereo che si era fatto regalare da me, contro due torri di legno cui lavorava da giorni (da lui chiamate “le Torri gemelle”), guardandole poi saltare in aria con un sorrisetto soddisfatto. Un gioco che, per fortuna, non ha più ripetuto. Ma non è stato il solo, a farlo: pare che quest’anno gli aerei-giocattolo siano andati a ruba e che molti bambini li abbiano usati per lo stesso gioco di mio figlio. Perché tanto cinismo, tanta aggressività? E non c’è una pericolosa analogia fra il folle gesto del teenager americano e questi lugubri giochi?»

Giorgio, Bolzano

Caro amico, attenzione a non fare confusione. Suo figlio di nove anni è un bimbo che, mettendo in scena la caduta delle Torri gemelle, usa con maestria il gioco per quello che è: il più prezioso strumento infantile di rappresentazione simbolica, e quindi di trasformazione interiore dell’angoscia. Come accenna fra l’altro nella sua lunga lettera, il bambino era stato molto colpito dalla tragedia del World Trade Center di Manhattan, aveva posto un’infinità di domande sul terrorismo e sul reale pericolo che ne derivava per voi e per se stesso. Era insomma angosciato da quegli avvenimenti. E ha approfittato del Natale, dei doni e dell’assottigliamento della distanza tra realtà e fantasia che caratterizza quella giornata per rappresentare attraverso il gioco la tragedia che tanto lo aveva colpito. Come sempre, la rappresentazione simbolica ha avuto un effetto catartico: ha rimosso l’angoscia. Tant’è vero che nei giorni successivi il gioco delle torri ha perso interesse per il bambino, che non lo ha più ripetuto. L’atto compiuto da Charles Bishop, suicida e potenziale omicida di 15 anni, ha in comune con il gioco di suo figlio solo l’angoscia per gli eventi di New York: un trauma che il ragazzo americano, a differenza di suo figlio, non aveva trovato il modo di trasformare attraverso la rappresentazione simbolica. Anche perché, a 15 anni, il gioco è meno a portata di mano che a nove. E non tutti osano cimentarsi con la rappresentazione creativa (il teatro, la scrittura, la pittura) che del resto non viene neppure proposta dalla scuola, per perbenismo o per malinteso patriottismo. Come si fa ad allestire una recita su una tragedia nazionale? Invece è proprio allora, come ci insegnano i Greci, che occorrerebbe fare teatro: per trasformare appunto il lutto collettivo in un simbolo condiviso. Proprio come fanno i bambini in modo naturale e spontaneo attraverso il gioco, mettendo in scena anche la propria aggressività, il proprio personale “terrorismo” che ispira, appunto, tanto “terrore”. Cosa che invece Charles Bishop, un ragazzo “sempre tranquillo”, come ha riferito lo sceriffo, non era in grado di fare. E se non hai l’aggressività per giocare e simbolizzare, ti rimane solo una via d’uscita contro l’angoscia. Quella, sempre perdente, che gli psicologi chiamano “acting out”: il tentativo di esprimere attraverso un’azione realistica e non simbolica l’angoscia che hai dentro. Di qui l’idea di noleggiare un Cessna e scaraventarlo contro un grattacielo: cosa che chi, come suo figlio, sa esprimere la propria aggressività (e quindi trasformare la propria angoscia) in modo simbolico e creativo non si sognerebbe mai di fare. Perché non ne ha bisogno: se l’è cavata perfettamente con il gioco, apparentemente crudele ma profondamente catartico, delle Torri gemelle.

Claudio Risé