Il padre ritrovato

In molti recenti romanzi torna protagonista una figura spesso trascurata

Il padre ritrovato

Negli ultimi 50 anni è stato spesso assente. Ora, però, se ne riscopre il ruolo: soprattutto nel rapporto con il figlio maschio

di Giulia Cerqueti ,dalla sezione Cultura/Letteratura Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. di Famiglia Cristiana, n. 49, 2 dicembre 2004

Georg ha quindici anni. Ha fatto appena in tempo a conoscere suo padre, morto quando lui ne aveva quattro. Di Jan Olav, suo padre, gli è rimasto qualche vaghissimo ricordo. Rimane una lettera che il genitore gli ha scritto poco tempo prima di morire di una morte annunciata. Una lettera lunga, dolce, appassionata, in cui un padre si racconta a un figlio che non potrà mai veder crescere e che, attraverso la narrazione di una storia d’amore con una misteriosa “ragazza delle arance”, Jan Olav introduce al mistero del senso dell’esistenza.


«Un po’ come nell’Amleto di Shakespeare», spiega lo scrittore norvegese Jostein Gaarder, autore di La ragazza delle arance (Longanesi), «il protagonista deve relazionarsi a un padre che gli sta parlando dall’oltretomba». E aggiunge: «Questo romanzo è un riflesso della mia vita. Sono sposato da 32 anni, ho due figli adulti e ora sono anche nonno. Nella società moderna le relazioni familiari sono le più importanti».
La ragazza delle arance è un racconto d’amore, la storia a due voci di un rapporto ritrovato – perché mai davvero perduto - , un dialogo ideale tra un padre e un figlio.
«La caratteristica della società occidentale negli ultimi 50 anni è stata quella di essere senza padre», spiega il professor Claudio Risé, psicanalista, autore di numerosi scritti sulla psicologia del maschile e sulla paternità, fra cui il più recente Il mestiere di padre (San Paolo Ed.). «Perché il padre non c’è più, oppure perché non svolge la sua funzione, o perché il divorzio l’ha portato fuori di casa e lontano dai figli. Oggi, invece, si assiste a una riscoperta della figura paterna, come mancanza da colmare, come nostalgia di qualcosa che si è perduto». Non è un caso che, negli ultimi tempi, il panorama editoriale mostri una chiara tendenza verso romanzi basati sulla figura paterna e sul rapporto – vissuto come un dialogo, in alcuni casi anche come scontro – tra padre e figlio. «Una decina di anni fa», ricorda Risé «c’è stata una grande diffusione di libri che parlavano, in forma di denuncia, del rapporto tra padre e figlia-femmina, con uno sguardo post-femminista». Ora un gran numero di scrittori riscopre la relazione tra padre e figlio maschio.
Libri scritti da uomini, a volte in terza persona – come nel caso di Il padre e lo straniero (Edizioni e/o) di Giancarlo De Cataldo – più spesso in prima persona, dal punto di vista del figlio, con forti tinte autobiografiche, quando non sono vere e proprie autobiografie.
È il caso di Venti giorni con Julian, brevissimo e poco noto scritto del 1851 (Adelphi), in cui Nathaniel Hawthorne, uno dei maggiori scrittori americani del XIX secolo, ripercorre in forma diaristica i venti giorni trascorsi da solo in casa con il suo secondogenito di cinque anni. Autobiografico è anche Il mio orecchio sul cuore (Bompiani): Hanif Kureishi, scrittore inglese di padre pachistano, racconta il ritrovamento di un dattiloscritto del padre, morto undici anni prima: un romanzo mai pubblicato, la cui lettura rappresenta per Kureishi un viaggio di scoperta nella vita del padre, nel suo passato in India, nelle sue relazioni familiari.
Il padre, continua Risé, è anche una figura di conflittualità, perché rompe il rapporto simbiotico che, biologicamente, il figlio intesse con la madre, e che non si interrompe con la gravidanza. Il padre è, dunque, colui che provoca il distacco tra madre e figlio. L’idea del conflitto, a livello simbolico, si ritrova nel romanzo d’esordio del gallese Ray French: ambientato negli anni Settanta in una cittadina proletaria del Galles, Tutto questo è mio (Einaudi) racconta in prima persona, attraverso gli occhi di Liam, un ragazzino di dieci anni, il rapporto sofferto di un figlio col padre, un operaio gretto e dai modi brutali, assillato dalla minaccia immaginaria di un’invasione comunista. Diviso tra il naturale attaccamento verso un uomo che, pur con tutti i suoi difetti, è suo padre, e l’affetto per la madre che col marito non va più d’accordo, Liam vorrebbe compiacere il padre, guadagnarsi la sua fiducia e la sua ammirazione. In questo modo, però, si allontana consapevolmente dalla madre. Un rapporto conflittuale tra padre e figlio è anche quello raccontato in La verità su mio padre (Archinto), libro di memorie del quarto libro di Tolstoj, Lev L ’vovic. «Per il figlio maschio ritrovare un rapporto affettivo col padre, pure attraverso la memoria, è un’esigenza vitale», spiega Risé. Questo recupero nella memoria è fondamentale anche quando il padre è un uomo tirannico, un alcolista, un violento, come nel caso di La confraternita dell’uva, capolavoro senile dell’italoamericano John Fante, pubblicato nel 1977 e ora riproposto da Einaudi (prefazione di Vinicio Capossela). La figura di Nick Fante, approdato in America dall’Abruzzo nel 1901, rimane immortalata in numerose pagine del figlio John. «Del padre c’è bisogno, per sviluppare un obiettivo, una direzione», conclude Risé, «è una relazione forte, profonda. Anche quando non è fisicamente presente c’è comunque stato, perché il padre è l’immagine di te stesso».