Il re bianco
di György Dragomán
(Torino, Einaudi, 2009, pp. 259)
Recensione a cura di Monica Blondi
L’adolescenza, si sa, è un periodo difficile e lo è ancor di più se vissuta sotto un regime totalitario in un paese dell’Europa dell’Est negli anni ottanta, come poteva essere la Romania di Ceausescu. Lo sa bene Dzsátá., l’undicenne protagonista di questo bel romanzo di formazione del trentaquattrenne György Dragomán, scrittore romeno di etnia ungherese. Dzsátá vive solo con la madre da quando la polizia governativa, la famigerata Securitate, gli ha rapito il padre perché dissidente politico.
All’inizio Dzsátá è convinto che suo padre si trovi in una stazione di ricerca per un’importante missione in qualità di scienziato. Per questo non si era preoccupato quando i suoi “colleghi” erano venuto a prenderlo, e anzi non si era neppure voltato a guardare per un’ultima volta il furgone grigio sul quale era salito, smanioso di tornare a giocare con il nuovo bottone della sua squadra di calcio da tavolo. Il padre lo aveva baciato sulla fronte senza abbracciarlo, raccomandandogli di fare il bravo e di badare alla madre perché da quel momento sarebbe stato lui l’uomo di casa. Dzsátá gli obbedisce e infatti, nella scena iniziale del romanzo, ne prende idealmente il posto: lo vediamo sgattaiolare fuori di casa all’alba, armato di un paio di cesoie, e rientrare poco dopo con un mazzo di tulipani rubati da un’aiuola pubblica. È l’anniversario di nozze dei suoi genitori e Dzsátá vuole fare una sorpresa alla madre facendole trovare i fiori che il marito le donava ogni anno - gli stessi che le aveva regalato durante il corteggiamento e quando l’aveva chiesta in moglie -, nel tentativo di dare un senso di continuità alle loro vite nonostante la tragedia.
Dagli stessi agenti della Securitate, tornati per una perquisizione arbitraria, Dzsátá apprende che suo padre in realtà si trova in un campo di lavoro sul canale Danubio-Mar Nero e che, se anche fosse sopravvissuto alle dure condizioni, non avrebbe fatto ritorno prima di molto tempo. Pur non perdendo mai la speranza di rivederlo, Dzsátá comincia a fare i conti con la sua assenza. Del padre possiede solo una foto staccata dal suo libretto militare, che porta sempre con sé nella tasca della divisa scolastica, e lo stesso nome di battesimo, oltre ad essere legato a lui da una grande somiglianza fisica.
Dietro un’apparente normalità fatta di lezioni a scuola, giochi con i compagni e la scoperta dell’amore, dal racconto di Dzsátá emerge il lato mostruoso di una società ostaggio di una terribile dittatura. Lo vediamo negli inni patriottici cantilenati in coro, nelle dure corvée imposte alla popolazione chiamate eufemisticamente “lavoro sociale volontario”, nella pesante censura che non risparmia le proiezioni cinematografiche, e in generale nel clima intimidatorio che accompagna tutto il romanzo.
Il padre assente, Dzsátá è chiamato a confrontarsi con un mondo maschile violento che si oppone al padre e ai suoi insegnamenti. Non c’è solo la Securitate con l’arroganza dei suoi agenti ma anche il brutale mister Gica, che usa sistemi da aguzzino durante gli allenamenti di calcio, spiando e maltrattando sia verbalmente che fisicamente i suoi giovani atleti, e che non esita a far disputare la partita all’indomani dell’incidente alla centrale nucleare di Cernobyl nonostante l’alto rischio di contaminazione. E c’è il corrotto Pugno di Ferro, l’insegnante di geografia con l’abitudine di impartire feroci punizioni corporali usando un tirapugni. È lui che durante la gara di tiro chiede a Dzsátá di non segnare più di un certo numero di punti perché a qualificarsi non doveva essere la loro scuola. Dzsátá, che ha imparato a sparare dal padre, si rifiuta di perdere nonostante le minacce di Pugno di Ferro, perché proprio suo padre gli aveva insegnato che “lo sport è una faccenda onesta, non ci sono inganni, ognuno parte con le stesse opportunità degli altri, e tutto dipende dalle proprie capacità”.
Il mondo degli adolescenti ricalca in scala ridotta quello degli adulti. Tra i ragazzi vige la stessa atmosfera di violenza e intimidazione: i più grandi minacciano, picchiano ed estorcono denaro ai più piccoli. Una violenza che riguarda anche i giochi, come la battaglia intentata contro la banda dei temibili fratelli Frunza, scoppiata per il possesso di un pallone, che culmina con l’incendio di un campo di grano. Giochi che assomigliano a sanguinose prove iniziatiche: Dzsátá, dimostrando grande coraggio, riesce a recuperare il pallone ma rimane ferito a una mano.
Ad ufficializzare l’entrata di Dzsátá nel mondo degli adulti è il nonno paterno attraverso una serie di gesti rituali. Ex Segretario del Partito costretto a dimettersi in seguito allo scandalo quando suo figlio aveva sottoscritto un manifesto di protesta, aveva interrotto ogni rapporto con la famiglia di Dzsátá, salvo invitare a casa il nipote due volte l’anno in occasione del compleanno e dell’onomastico. Quest’anno, per la prima volta, il nonno permette a Dzsátá di dargli del “tu”, poi gli offre un bicchiere di vino e infine gli consente di sparare con una vera pistola, una pesante Luger con cui colpisce un gatto, premiandolo poi con la sua medaglia più cara, la Stella d’Oro dei Veterani. Qualche giorno dopo lo accompagna sulla sommità di una collina da cui si può ammirare un magnifico panorama, come aveva fatto anni prima con il padre di Dzsátá, in una sorta di rito che si ripeteva di generazione in generazione e che coinvolgeva gli uomini della loro famiglia. Vedere la città che si stende ai loro piedi, gli spiega il nonno, è un modo per imparare a guardare il mondo con occhi diversi.
Un’altra importante figura maschile è rappresentata da Piccone, l’operaio dal viso deturpato a causa del vaiolo nero contratto sul canale Danubio, che salva Dzsátá da una banda di ragazzini violenti. L’uomo lo esorta a parlargli di suo padre e così Dzsátá gli racconta di quando quest’ultimo era venuto a prenderlo a scuola, un giorno in cui una fitta nebbia lattiginosa impediva di vedere a un passo. Durante il tragitto lo aveva preso per mano, nonostante la sua reticenza, e si era messo a raccontargli la storia di Roald Amudsen, l’esploratore norvegese che per primo scoprì il Passaggio a Nord-ovest, e che durante un viaggio al Polo credeva di essersi smarrito nella nebbia, salvo poi scoprire di trovarsi a soli due metri dalla capanna rifugio. Dzsátá è convinto che il padre si sia perso ma che non abbia il coraggio di ammetterlo per cui quando all’improvviso si ritrovano davanti al portone del loro palazzo si vergogna di aver dubitato di lui e gli viene da piangere: “Questa storia, da allora, non mi era mai più tornata in mente, neanche la volta in cui ero stato interrogato su Amudsen, era come se avessi voluto cancellare completamente il ricordo di aver potuto perdere la fiducia in lui”. Dotato di poteri sciamanici, Piccone regala a Dzsátá la possibilità di rivedere il padre servendosi di un pupazzo ricavato da una manciata di fango mescolato ad alcune gocce del sangue del ragazzo fatte stillare dalla punta del suo dito. L’immagine dell’uomo, magrissimo, con addosso una divisa carceraria e sulle spalle un sacco di cemento, appare per qualche secondo attraverso uno specchio. È dunque grazie a una ferita, infertagli da un altro uomo, che Dzsátá si avvicina al padre, scorgendone tutta la sofferenza; una ferita che è anche la prima tappa di un percorso di allontanamento dal mondo materno, rassicurante e protettivo.
Dzsátá rivede il padre al funerale del nonno, a distanza di due anni dal suo rapimento, trascinato in chiesa a metà cerimonia, ammanettato e legato a una lunga catena tenuta dalle guardie. Ciò che lo colpisce maggiormente è l’aria assente e l’espressione spenta dei suoi occhi. Padre e figlio riescono a scambiarsi solo un lungo sguardo prima che l’uomo esploda in un grido di dolore e venga nuovamente trascinato via, tra le urla della moglie e il parapiglia con le guardie che ne segue. Il grido di rabbia di Dzsátá si sovrappone a quello del padre, prolungandolo. Brandendo un piede di porco abbandonato dai becchini, il ragazzo si fa largo tra la folla ed esce dalla chiesa. La sua corsa a perdifiato dietro al furgone grigio sembra allontanarlo per sempre dalla sua infanzia, proiettandolo definitivamente verso l’età adulta, verso il padre: “sapevo che presto avrebbe accelerato, ma in quel momento, dietro la grata del portellone posteriore, vidi il viso di papà, bianco come un osso, e capii che per quanto forte fosse andato alla fine l’avrei raggiunto, sì l’avrei raggiunto, alzai il piede di porco sopra la testa, intanto continuavo a correre dietro il cellulare, veloce, sempre più veloce, sempre più veloce, e ancora più veloce”.
[02 giugno 2009]