Il cuore altrove

di Pupi Avati

Con Neri Marcorè, Vanessa Incontrada, Giancarlo Giannini, Anna Longhi
(DUEA Film in collaborazione con RAI cinema, 2002)

E lui canta. Anche altre volte era finita in un modo del genere, con espressioni di una strana ed impalpabile felicita', per i protagonisti maschili dei film di Pupi Avati.

Non a tutti piacciono le storie di Avati, ma al regista bolognese va dato atto di essere, tra gli autori del cinema italiano, uno dei piu' bravi e sensibili nel raccontare l'umiliazioni alle quali puo' portare la soggezione maschile di fronte al potere sessuale della donna moderna. Anche quando, come spesso capita nei suoi film, si tratta di storie ambientate nei primi del '900, in un'epoca che – quanto alle relazioni tra i sessi - non aveva ancora conosciuto i piaceri della modernita'. Quell'epoca, insomma, dove esistevano ancora le rovinafamiglie e gli sciupafemmine. Dove c'erano le cocottes e gli invertiti, e tante altre figure ormai assorbite dal livellamento generale dei costumi verso un modello unico di comportamento amoroso, che ruota attorno al totem della liberta' sessuale (soprattutto femminile).
Il Cuore Altrove, con Neri Marcore' e Vanessa Incontrada, e' un film che ha realizzato al Festival di Cannes lo stesso destino del suo protagonista: non ha vinto niente, e nemmeno si puo' essere sicuri di una vittoria morale, ma nel contempo non si puo' neanche stroncarlo. La storia, in breve, e' quella di un giovane romano di famiglia ricca che si trasferisce a Bologna per insegnare lettere in un liceo cittadino, e altresi' per conoscere i piaceri di Venere, come auspicava il padre (Giancarlo Giannini), il quale aveva bisogno di un ulteriore erede maschio per continuare l'azienda di famiglia. Nel capoluogo emiliano, il Nostro mostra tutta la sua impacciata ipersensibilita', sogna amori ideali ispirandosi alla poesia latina di Ovidio e Lucrezio, e improvvisamente viene travolto dalla passione per una giovane di buona famiglia del posto, temporaneamente afflitta da una cecita' di origine traumatica che rende possibile l'avvicinamento tra due mondi che non si sarebbero altrimenti mai incontrati.
La giovane, ricca, e socialmente ben introdotta Angela (Vanessa Incontrada) non e' propriamente una rovinafamiglie: e' proprio una specie di velina televisiva dei nostri tempi, paracadutata chissa' come nella societa' borghese di provincia dei primi del secolo scorso. Angela utilizza il malcapitato professore in modo spregiudicato, per prendersi rivincite e soddisfare i suoi contraddittori fini amorosi, attraendolo in una rete di umiliazioni feroci - tutte volontariamente accettate dal predetto -fino a fidanzarsi ufficialmente con lui. Per poi lasciarlo senza nemmeno un biglietto di scuse, al fine di sposare il ricco professore svizzero che, operandola, le ridona la vista. Il tutto non senza aver prima concesso al protagonista un'unica notte d'amore, come sempre accade in situazioni cinematografiche del genere: forse e' un modo politicamente corretto per riscattare la figura femminile agli occhi del pubblico, o per concedere graziosamente uno zuccherino - il solito – anche alla calpestata dignita' virile.
Il film finisce con il protagonista che se ne torna sconfitto a Roma, a lavorare nella azienda del padre. E un giorno casualmente, mentre era al lavoro nei Palazzi Vaticani, pensa di dover incontrare nientemeno che il Papa e invece reincontra la sua musa del periodo felsineo - ormai di nuovo vedente, ricca e felice sposa altrui - in una situazione del tutto improbabile. Dove si fa riconoscere da lei proprio in extremis, citandole un carme latino, senza nemmeno poter ottenere una parola di risposta. E poi se ne va cantando per le strade del Vaticano. Cantando in preda a una strana euforia che, come gia' detto, si e' vista altre volte negli eroi negativi dei film di Pupi Avati.
Quest'ultimo ha detto piu' volte, nelle sue interviste, di avere fatto cinema al solo fine di dimostrare agli amici del bar di Bologna che non era lo sfigato che sembrava. Timido e poco fortunato con le donne. E del resto, non solo si capisce bene che c'e' una nota autobiografica nelle sue storie, ma anche sembra evidente che concedere rivincite - spesso paradossali - per il regista e' proprio una passione professionale: Avati e' un formidabile riciclatore in ruoli drammatici, da grande cinema, di attori che erano noti solo come caratteristi un po' sfigati del genere comico. Dobbiamo considerarlo un eroe del paradosso? Io posso solo dire che fatico a reggere la stretta al cuore che mi prende di fronte alle situazioni di umiliazione, di fronte al femminile, che si vedono nelle sue storie.
E l'unica cosa che vorrei citargli, e l'unico eroe davvero positivo che mi piacerebbe vedere in azione al posto dei suoi protagonisti umiliati e dal riscatto incerto, e' il cavaliere del Guanto di Schiller.
La cui ballata vi cito in calce, in una traduzione italiana.

Francesco, il re cortese,
Aspettando la lotta, innanzi al parco
De' leoni sedea. Disposti in arco
I pari del suo regno e in alto seggio
Le dame, fior della beltà francese,
Alla regal persona eran corteggio.
Egli col dito accenna, e si disserra
Tosto un cancello. Sospettoso e tardo
N'esce un lion; lo sguardo
Muto d'intorno aggira,
Scote la giubba, stira,
Sbadigliando, le membra, e ponsi a terra.
Il re di novo accenna, e d'un novello
Serraglio ecco s'innalza
Strepitando la sbarra; e fuor da quello
Con terribile salto un tigre sbalza.
Come scorge il leone, inferocito
Manda un lungo ruggito,
Torce la lingua, snoda
In circoli la coda,
Con fremito sommesso
Fassi al luon da presso,
Poscia allunga egli pur le membra orrende,
E sul terren si stende.
Accenna il re di nuovo, ed una doppia
Serra di nuovo si spalanca, e vome
Due pardi a un tratto. L'animosa coppia
Avida d'azzuffarsi il tigre assalta.
Nelle feroci branche
Questo la stringe. Salta
Sui piè la belva dalle fulve chiome,
Rugge, dibatte l'anche,
E torna la quiete.
Cacciati i pardi dall'ardente sete
D'insanguinar le labbia
Corrono il vasto agone;
Poi di fianco alla tigre ed al Ieone
Si distendono anch'essi in sulla sabbia.
In quella un guanto di leggiadra mano
Cade giù tra le fiere
Dall'orlo d'una loggia, e la vezzosa
Spoglia nel poco vano,
Che parte il tigre dal leon, si posa.
Allora al cavaliere
Dalorgia, in tuono derisor, favella
Cunegonda la nobile donzella:
"Ser Cavaliere! S'egli è ver che tanto
Per me v'infiammi amore,
Come voi mi giurate a tutte l'ore,
Ite a raccormi il guanto."
Ed ecco il Cavalier d'un piè veloce
Nel circo formidabile discende,
E tranquillo di mezzo a quel feroce
Gruppo di mostri il fatal guanto ei prende.
Fra meraviglia e raccapriccio il volto
Han dame e cavalieri in lui rivolto.
Placido, il guanto in pugno, egli risale
Fra il plauso universale;
Ma d'un tenero sguardo e d'un sorriso
Pieno d'amor, foriero
Della vicina e cara
Mercé che gli prepara,
Cunegonda lo accoglie. Il guanto in viso
Le getta il Cavaliero,
Così dicendo : "Io nulla
Da voi, nobil fanciulla,
Pretendo." E da quel giorno
Più non fe' l'animoso a lei ritorno.