Il ritorno

Regia di
Andrey Zvyagintsev

Russia, 2003,
Produzione Dmitry Levsnevsky,
Distribuzione Lucky Red 

Se è vero, come si dice, che l'inizio di un libro è già nella sua prefazione, ancor di più, per questo lungometraggio "il piano dell'opera" è già manifesto, pienamente, nella prima inquadratura. Già stilisticamente importante, con un equilibrio compositivo assolutamente perfetto e pregna del simbolismo che accompagnerà "cinematograficamente parlando" tutto l'evolversi della storia, lo snodarsi degli eventi, la "danza delle anime" dei personaggi. Il film si apre con l'immagine di un molo, alla destra dell'inquadratura... una torre.

Ed è già la torre, simbolo fallico, a dichiarare che questo film parla di uomini, parla a loro...è fatto per loro, anche se ci vorrà tutto il film per passare dall'intuizione alla comprensione di questo disegno. E, su questo simbolo, (che ora inquadrato dall'alto domina sulla terra e sull'acqua, anelito verticale verso il cielo) si arrampicano i ragazzini protagonisti della storia. Dalla cima della torre dovranno avere il coraggio di lanciarsi nel vuoto, affrontare il rischio e la paura di abbandonare, almeno per un attimo, il legame.....l'ancoraggio con la terra e con tutto quanto questa ha significato fino ad allora,per le loro giovani vite. Tutti i ragazzi si lanciano ad uno ad uno. Inizia il più grande, il più esperto.....come a tracciare una rotta possibile, a lanciare nel vuoto una testimonianza della affrontabilità del pericolo e della sua "superabilità". Tutti i ragazzi si lanciano........tranne uno. Ivan.....! E' il più piccolo, sente che la sfida non può essere persa, non è un semplice tuffo, non è la possibilità di essere preso in giro per non avercela fatta. E' semplicemente una questione di vita o di morte. Ivan sente che un'altra vita sarà possibile solo al contatto con l'acqua (dopo il salto nel vuoto) solo dopo aver trovato il coraggio di staccarsi dalla terra. Coraggio che peraltro ha già parzialmente trovato essendo riuscito a salire sulla torre/fallo, primo passo verso il distacco dal "suolo". Ma il ragazzo non riesce a tuffarsi, è come se non riuscisse ad attingere la forza ed il coraggio necessari ad una parte di sé molto intima ed ancora sconosciuta.

Paradossalmente ora è solo, accovacciato e tremante, in cima al simbolo stesso di quella forza che non sa riconoscere, che non vede. Nessuno ha parlato al ragazzo di quella forza e, ciò che conta ancor di più, il ragazzo non ha avuto un padre da cui attingerla in silenzio. Sotto di lui i ragazzi del gruppo vanno via. Ivan è fuori. Tagliato fuori dal gruppo (all'interno del quale c'è anche suo fratello maggiore Andrey), escluso perché ora il resto del gruppo è in contatto con quella energia e sa...., sa di doverne percorrere la strada. Dopo un pò, dai piedi della torre si leva la voce di una donna che chiama il ragazzo. E' sua madre. La donna sale sulla torre, abbraccia Ivan e cerca di riportarlo " al suolo"....... alla protezione da cui il ragazzo è partito. Per amore la donna, solo per infinito amore, cerca di far credere al ragazzo che il fallo, il destino a cui gli uomini sono chiamati, possa essere ingannato: " Non lo diremo a nessuno......che oggi non ti sei tuffato". Ma il ragazzo imparerà prestissimo che non è così e che quel tradimento ha un prezzo, un prezzo che il gruppo gli presenterà presto, anzi prestissimo. Ma la meraviglia, il miracolo sta nel fatto che lo comprende anche sua madre. E lo comprende al punto che intuisce che per trasformare i suoi due figli maschi in uomini serve loro un uomo. E non un uomo qualunque. Un uomo la cui assenza ha bloccato Ivan sul simbolo degli uomini, impedendogli di attingere le forze alla sua stessa stirpe. Non un uomo qualunque dunque......non un uomo ma il loro padre.

Ed il loro padre, che fino a quel momento aveva evidentemente rifiutato i ragazzi, o semplicemente era stato assente, ritorna. Come se la torre avesse richiamato anche lui alle sue responsabilità. Come se l'intero universo si fosse fermato sul pianto di Ivan e su quel salto mancato e, fermandosi, avesse urlato a sé i nomi di chiunque potesse trasformare l'esito di quella sfida. La torre allontana da sé gli altri ragazzi (che hanno già fatto abbastanza vincendo la loro sfida e non saranno certo in grado di fare il lavoro che spetta ai genitori) e chiama a sé la madre ed il padre del ragazzo. Il padre arriva. La prima volta che i due ragazzi lo vedono l'uomo sta dormendo. E' un sonno profondo simile alla morte, perché per i ragazzi è quasi un ritorno “dalla morte". E' magnifica l'inquadratura del padre dormiente, pressochè identica ad una famosissima tela di Mantegna raffigurante il cristo morto nel sepolcro. Perfino la luce è stata gestita nello stesso modo, tanto che ci risulta impossibile pensare ad una coincidenza. Da li partirà il viaggio dei ragazzi insieme al padre. Un viaggio iniziatico, finalmente verso la vita e quindi anche verso il dolore e le sue contraddizioni. Un viaggio ricchissimo di simboli, di sottolineature. Sottolineature spesso "fotografiche" più che cinematografiche. Il tempo, il ritmo, i dialoghi visivi sono interamente retti dalla trama fotografica. Stilisticamente le immagini sono da manuale, le inquadrature sono manifestazione inequivocabile di una simbiosi perfetta tra regista e direttore della fotografia.

Una simbiosi che nella nostra memoria riesce a trovare equali solo in un altra coppia "immortale" e cioè quella di Bertolucci/Storaro in "Il tè nel deserto". Il film stesso si chiude con una magnifica galleria di immagini in bianco e nero. Le musiche sono superbamente assenti. E' incredibile quanto sia poco occidentale il senso del vuoto, dell'assenza. Richiede amore per l'arte e l'equilibrio, un amore ed una dedizione assoluti. Rinunciare al proprio ruolo in favore del risultato finale richiede una rinuncia al proprio egocentrismo ed è un evento più unico che raro nella "tarda modernità occidentale". E' per questo che Dergatchev merita, a mio parere, un plauso quanto il direttore della fotografia. Le musiche in questo film sono assolutamente al servizio dell'anima dello spettatore, fino a rinunciare alla loro presenza. Quando ci sono e sono rilevanti si tratta quasi sempre di strumenti ad arco che disegnano melodie tradizionali russe, rese semplici e leggere dall'uso di uno, massimo due strumenti soltanto. E, in queste partiture, quasi come ad evitare, esorcizzare il rischio che lo spettatore se ne lasci cullare, ecco subentrare fraseggi di struttura elettronica, di tonalità molto basse, istintive, per nulla emotive anzi con l'obiettivo di mantenere "eretta" la tensione sulla trama narrativa. Il regista, Andrey Zvyagintsev, gioca con la memoria degli spettatori, ne evoca ancoraggi, smorza ed esalta memorie, aiuta chi osserva ad attingere alle proprie "gabbie dell'anima" ad intessere il proprio macramè esistenziale parallelamente a quello che il fascio di luce grigia sembra scolpire sul grande schermo. Questo film andrebbe visto da soli per avere modo di comprendere appieno che ci sarà impossibile non guardarci dentro, non guardare alla nostra storia individuale. Poco importa se la nostra esperienza di padri o di figli sia simile o meno a quella che si snoda sullo schermo. Anzi potrebbe anche essere molto diversa, come nel caso di chi scrive, ma questo non è importante. Qualunque sia stata la vostra esperienza questo film vi riporterà a riabbracciarla. Forse non vi accadrà di voltarvi di scatto quasi come a sentire, percepire la presenza di un padre, di un fratello, o di qualunque uomo voi siate stati nello scorrere degli anni, ma sentirete in quella torre un richiamo irrinunciabile che avrà le voci di tutti gli uomini che avete amato e che vi hanno amato e la meraviglia, la gioia e l'imbecillità di tutti gli uomini che siete stati.