Non bussare alla mia porta
di Wim Wenders
con Sam Shepard, Jessica Lange, Tim Roth, Gabriell Mann, Sarah Polley, Fairuza Balk
Germania 2005
A cura di Armando Ermini
Ventuno anni dopo Paris, Texas, Wenders ritorna sul tema del rapporto fra padre e figli, anche questo ambientato, non casualmente, negli immensi spazi dell’America.
Un sessantenne attore di film western, con alle spalle una vita “irregolare”, donne, alcool, droga, abbandona improvvisamente sul cavallo di scena il set del film che sta girando. Con idee un po’ confuse, inizia un viaggio alla ricerca di un nuovo senso per la sua vita e, inseguito dal detective della compagnia assicuratrice della produzione del film che ha il compito di riportarlo sul set, ritorna emblematicamente “alle origini”, dalla madre che ormai non vede da decenni.
Da lei apprende di avere un figlio da qualche parte nello stato del Montana, frutto di un’avventura passeggera. Da qui, e con la vecchia auto che fu di suo padre, parte per la seconda tappa, la ricerca del figlio, e nella quale troverà anche una figlia.
Come in Paris, Texas c’è il tema della nostalgia del padre, del bisogno di padre (e di figlio), ed anche quello del ruolo e funzione materna e paterna, ma con una soluzione diversa da quella del vecchio film . Ed ancora, Wenders ripropone, precisandolo ma allo stesso tempo lasciandolo come contraddizione insoluta, il tema del rapporto fra ricerca delle origini e nomadismo maschili, simboleggiato meravigliosamente dai grandi spazi che fanno da sfondo alla vicenda.
Howard Spence (S. Shepard) sente la spinta ad andare verso il figlio ma senza sapere come, fino a meditare la rinunzia, mentre il suo improvviso irrompere sconvolge il trentenne Earl (G. Mann), che si era illuso di averlo cancellato dalla sua vita, e fa esplodere tutta la rabbia disperata che gli covava dentro. Diversamente dal figlio maschio, è invece Sky (S. Pholley), l’altra figlia che non sapeva di avere, ad andare verso il padre. Lo ha sempre seguito sui giornali e in internet, ed ora, morta la madre e disperse al vento le sue ceneri, si sente libera di cercarlo e trovarlo.
Diversa è però la conclusione rispetto a Paris, Texas. Qui il film si conclude col figlio che torna alla madre, perché, sembra dire Wenders, alla fine è della madre. In Non bussate alla mia porta la scena finale vede fratello e sorella in viaggio sull’auto del padre verso un luogo non precisato, forse la vita stessa, forse per raggiungerlo di nuovo. I ragazzi sono allegri e cantano una canzoncina, Howard [il padre] non c’è…Howard non c’è…, a significare che lo hanno comunque ricostruito dentro di sé e che, ora, possono finalmente andare nel mondo. La sua pur fugace , e vedremo il perché, apparizione nella vita dei figli ha riattivato in loro l’archetipo del padre e li ha aperti alla vita, mentre i passaggi della vecchia auto simboleggiano la trasmissione di paternità. Dal padre al figlio, ai figli del figlio, tramite la madre.
Ed eccole le madri, quella dell’anziano attore e quella del ragazzo, come base e continuità di presenza affettiva nella vita. La vecchia vedova accoglie il figliol prodigo con una grande serenità, senza un rimprovero o una rimostranza per il pluridecennale disinteresse, ma soltanto con l’esortazione a occuparsi, doverosamente, del nipote. E’ lei che ha conservato la memoria del marito (l’auto), che consegna a Howard. Dal canto suo, la madre di Earl (J. Lange), dopo aver respinto le confuse avances del vecchio amante si guarda bene dall’ostacolare in qualsiasi modo il suo difficile tentativo di “ritrovare” il ragazzo.
Al centro di queste vicende, Shepard si muove impacciato, silenzioso, con quel suo volto rugoso e quasi inespressivo, certamente più a suo agio sul cavallo di scena o a letto con qualche ragazza, che a parlare di sentimenti. Ha sentito di dover “tornare”, che qualcosa di fondamentale gli manca, ma nello stesso tempo non sa, non può o non vuole fino in fondo tornare per davvero, quasi fosse spinto fuori, quasi sapesse che i legami e gli affetti familiari non esauriscono la sua vita e che il suo destino è altrove, un altrove che letteralmente lo “cattura” sotto la forma delle manette del detective dell’assicurazione che lo obbliga a tornare sul set del film.
E Shepard, il maschio irregolare, il nomade inquieto, non può che andare, non si sa quanto rassegnato o sollevato, non prima però di aver gettato al figlio le chiavi dell’auto. Presente e assente nello stesso tempo, in cerca di casa e in cerca di spazi; è la condizione interiore del nomadismo maschile, contemporaneamente fonte di drammi e dispiaceri ma anche di capacità creative e di libertà.
[20 ottobre 2005]