Quella lobby che vuole il Parlamento in rosa
Dal Palazzo al Salotto, dal Salotto al Palazzo, la politica italiana vive di rimbalzi e commistioni, sono poche le idee forti che germogliano, ma la stessa minestra, riscaldata con perizia, fa gola ai personaggi più diversi. Non fermatevi alle apparenze, al muro-contro-muro del destra/sinistra, le tessere di partito regolano appartenenze fittizie. La partita, quella vera, è un gioco di sottobosco. Come la buona novella bipartisan, la novità dell'estate: è nata la "lobby rosa", così la chiamano, tenuta a battesimo sulle pagine di "Sette", sciccosissimo salotto su carta patinata. Il la l'ha dato Francesco Alberoni, ma la musica la scrivono certe donne potenti e di carriera. Dalla telegenica Daria Bignardi alla boxeur Katia Bellillo, dalla morigerata Maria Giovanna Maglie alla sicula Stefania Prestigiacomo, e poi il solito contorno di giornaliste e deputate. L'ultima a dire la sua è stata l'ex ministro Livia Turco. Che gioca di sponda con Anselma Dell'Olio, coniugata Ferrara, nel denunciare una presunta "indecenza": quello striminzito otto per cento di donne in Parlamento. Una pattuglia spaurita e rachitica, da rimpolpare a tutti i costi. A colpi di legge: la lobby rosa chiede che venga fissata una "quota" fissa di gonnelle in politica. E' ora di mettere mano, scrive la Turco, alla Costituzione per introdurvi delle "norme antidiscriminatorie" - come se la Costituzione, oggi, facesse differenze fra cittadini di serie A e di serie B. E' un pateracchio, ma non un pateracchio razzista. Tuttavia, la lobby rosa fa finta che lo sia, e rimescola sapientemente le carte, chiedendo "giustizia", di più: un'oasi protetta. Non mi sembra che a un donna che voglia far politica sia sbarrata la strada. Nessuno ha impedito a Katia Bellillo, a Livia Turco, a Stefania Prestigiacomo (giusto per citare tre "lobbiste") di diventare ministro. Per entrare in Parlamento, hanno agguantato una candidatura, si presume, alle spese di qualche collega di partito, maschio: nella scelta, avranno contato caratteristiche come bravura, popolarità, impegno (si spera). Ma se ci fosse una norma per cui in Parlamento le donne dovessero obbligatoriamente contare per il 30%, allora ci sarebbero degli aspiranti-deputati, uomini, esclusi non per questione di merito, cioè per il giudizio degli elettori. Semplicemente perché un seggio su tre deve essere "rosa", è la legge, non si discute. E allora perché non chiedere che sia garantita anche una rappresentanza dei transessuali, facciamo il 5%? I gay, non hanno forse diritto anche i gay a un loro 30%? E se si candida una lesbica, finisce nelle quote degli omosessuali, in quelle delle donne, o deve chiedere ospitalità, per affinità di gusti, ai maschi etero sopravvissuti? Ma perché fermarsi ai sessi: una rappresentanza composita e variegata dovrebbe contemplare persone dalle caratteristiche diverse. Ci vogliono delle quote razziali, non vorrete mica lasciare fuori dal Parlamento un certo numero di ebrei, il minimo necessario per avere una discussione coerentemente democratica. E perché non accordare allora la loro quota anche agli ammiratori di Barbara Streisand, ai fedeli del Reverendo Moon, a chi parla l'Esperanto... Si sussurra che la lobby rosa sia già al lavoro, dietro le quinte, per una donna direttore del Festival di Venezia. E se studiassimo un meccanismo diverso, una staffetta, che tenga conto degli attributi e delle preferenze sessuali? Dopo una serie di estenuanti trattative, potrebbe uscire il nome di Platinette, compromesso perfetto. Le lobbiste direbbero che sto esagerando, che mento sapendo di mentire. "C'è anche in America", dicono, ed è lo Zenith dei loro argomenti. Ed è vero, cose del genere ci sono anche negli States, si chiamano "azioni affermative" e piacciono tanto a chi osserva il mondo a stelle e strisce dal suo oblò nel Greenwich Village. Peccato che abbiano fatto disastri, fomentato nuovi rancori razziali, distrutto università e cultura. Ne da conto un librettino, "The Diversity Myth" (Independent Institute, Oakland: 1995), firmato da David Sacks e Peter Thiel, lodato e vezzeggiato anche dall'establishment democratico più intelligente. La femminista Elizabeth Fox-Genovese, l'ex governatore Richard Lamm, l'editore del "Washingtonian" Philip Merrill. Sacks e Thiel rendono conto del massacro all'insegna del multiculturale, del politicamente corretto, delle "pari opportunità". Università come Georgetown e Stanford hanno espulso dalle loro classi di letteratura autori come Shakespeare, Chaucer o Milton - maschi, bianchi, per giunta inglesi, un affronto alle minoranze. Le scuole elementari di Alexandria, in Virginia, hanno abolito la parola "Natale", festeggiare la nascita di un bambino bianco di sesso maschile e religione monoteista sarebbe offensivo verso chi non si riconosce nell'identikit. L'associazione degli psichiatri americani promuove corsi per estirpare dall'uomo bianco quell'insopprimibile desiderio di sopraffazione. Sempre a Stanford, vige una nuova segregazione, con dormitori separati per studenti di colore e preferenze sessuali diverse - azioni affermative. E' lo stesso copione che si recita a soggetto a Durban, per la conferenza sul razzismo, che vuole spingere l'Occidente a "riconoscere le sue colpe" e indennizzare il resto del pianeta. La lobby rosa fa lo stesso ragionamento, in scala: gli uomini ci hanno fatto del male, ora ci devono riconoscere qualcosa in cambio, un privilegio speciale. Dov'è finito il femminismo di una volta, quello del corpo è mio e me lo gestisco io, quello che ricercava la parità dei diritti? Oggi sarebbe politicamente scorretto. Perché le donne, e queste altre ipotetiche "minoranze", vogliono altro: il privilegio, una discriminazione bella e buona formato decreto, che cancelli i torti subiti in passato e ne faccia di nuovi. L'unica minoranza che non ha voce in capitolo, che se ne sta zitta, sono i maschi-bianchi-eterosessuali, specie in via di estinzione. Perdonatemi un eccesso di catastrofismo, sembra una polemica da salotto ma c'è qualcosa di più. Siamo, potenzialmente, di fronte alla fine dell'Occidente per come lo conosciamo. La pietra angolare della nostra cultura si chiama isonomia, tutti gli uomini (e le donne...) sono uguali davanti alla legge, indipendentemente da sesso, religione, preferenze sessuali. La quotomania apre la porta a un altro principio, le persone non sono uguali innanzi alla legge, qualcuno ha diritto a certe cose e altri no, e non sono le diseguaglianze immaginifiche e "crudeli" del capitalismo globalizzato. Questa, carta canta, sarebbe la legge, nero su bianco, la regola non l'eccezione. L'uguaglianza dei diritti è un ritornello che ci suona istintivamente bene, è una caposaldo della nostra civiltà, non da Jefferson ma da Pericle, anzi da Solone, in poi. Vogliamo davvero sbarazzarcene, così, a cuor leggero? Alberto Mingardi (da: Libero; 01.09.01)
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