Tornare a casa…sulle orme di nostro padre Abramo

Intervento di Cesare Brivio durante l’incontro annuale dei Maschi Selvatici, Cazzago, Domenica 30 settembre 2001

 

E’ possibile avere una copia integrale di questo documento scrivendo alla Redazione in http://www.maschiselvatici.it/messaggi/indice.htm

Quella che voglio porre è la stessa domanda che ho posto in occasione di un corso per formatori alla Statale di Milano, alla fine del quale il docente invitava a individuare nell’area del simbolismo religioso mondiale un simbolo in cui identificarsi. I partecipanti si identificarono con varie immagini religiose, tuttavia sempre con simboli del tutto estranei alla nostra tradizione. Dunque la mia domanda: “Scusate, ma Abramo non è forse riconosciuto padre dalla tradizione religiosa di un miliardo di mussulmani, cattolici, cristiani ed ebrei? Dunque perché questa dimenticanza?” Dunque eccola riproposta anche a voi: perché proprio noi che ci riconosciamo poveri di identità e di valori, nella dimensione di questo maschile occidentale svilito, offeso e criminalizzato, perché proprio noi che siamo eredi di una paternità difficile e guardiamo ad una realtà maschile forse ancora più in difficoltà per aver interiorizzato esclusivamente un modello femminile, perché proprio noi ci siamo dimenticati di Abramo, cioè del padre all’origine della nostra storia? Per rispondere alla domanda cerchiamo di capire chi è Abramo. Abramo è padre di figli “più numerosi delle stelle del cielo” cioè un maschio capace di esprimere una straordinaria paternità, capace di trasformare un mondo deserto in un mondo abitato da innumerevoli “case di figli”. Proprio lui che non poteva averne perché troppo anziano…“Un ritorno a casa come padre”, se vogliamo usare la stupenda immagine proposta da Rino Barnart nella sua relazione, impossibile. Che cosa fa Abramo per costituire la sua casa? Noi diremmo per ricostituire la nostra casa desolata da un non-riconoscimento del nostro ruolo di padri, di maschi, di mariti? Abramo formula l’alleanza con Dio, un Dio Padre che entra in relazione con lui con tutta la Sua potenza in quanto Abramo crede, ha fede. “Poggiando su una speranza contro ogni speranza credette che sarebbe diventato padre di una moltitudine di popoli. […] Di fronte alla promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede, dando gloria a Dio, nella totale certezza che ciò che Egli ha promesso è anche capace di realizzare. Per questo gli fu contato come giustizia” (RM 4,18-22). E’ la fede il fare supremo di Abramo (1) che decide quel particolare tipo di azione che fra tutte le porte della nostra esperienza interiore fa aprire quella che conduce alla relazione personale con Dio. E ciò comporta un fare, ed è un fare che apre ad una relazione e la costituisce. Quando penso per esempio alla esperienza del selvatico in un bosco, compio la stessa operazione: decido l’azione di aprire la porta della mia interiorità che entra in relazione con la selva, con la possibile esperienza del sacro, il “regno della eccedenza” (2)…Io lo immagino Abramo, antico padre, padrone di cammelli e schiavi, immagino la sua signoria sulle sue cose, il suo dominio. Signoria e dominio inutile: non è padre. Tutto finirà con lui. Lui stesso percepisce con angoscia di essere un nulla perché nulla “discenderà dai suoi lombi”. Ma proprio adesso concepisce l’azione che cambia radicalmente la sua condizione. La grandezza di Abramo è quella di capire che la relazione con il Padre non può porsi in altro modo che in un illimitato affidamento in Lui, in Dio. Abramo entrò nella relazione con Dio con tutto se stesso, anche con ciò che lui stesso avrebbe giudicato oscuro, non degno di Dio. Ma lasciò a Dio la valutazione, a Dio il compito della trasformazione. Non fece conto delle sue forze, ma solo di quelle del Padre. E’ alla maniera di Abramo che possiamo tornare a casa. Che vuol dire per noi questa Alleanza che non giudica di noi? Che cosa vuol dire un “sole interiore”, l’amore di un Padre che a noi naufraghi di infiniti naufragi garantisce fin da subito il premio di ogni intrapresa vincente: la rassicurazione dell’amore del Padre, che non ci fa morire, che non ci abbandona, che non ci giudica, che non ci perde, che ci conosce. Che cosa vuol dire per noi maschi occidentali contemporanei giunti fino alla condizione di un dubbio sistematico non delle verità della nostra ragione, ma ben più gravemente e distruttivamente al dubbio sistematico circa il nostro cuore? Non ci siamo trovati fuori di casa inseguendo tutto ciò che abbiamo ritenuto e ci hanno detto che era bene, mentre tornare a casa nostra per fare i padri e i mariti non ci stanno dicendo che è una pretesa ingiusta in cui si annidano infinite ingiustizie, istinti di potere e violenza? In altri termini non ci sono forse leggi e corpi dello Stato pronti a costringerci a far stragi in guerra mentre non possiamo più mollare un ceffone ad un figlio per correggere un comportamento inaccettabile? Essere padri e mariti non è ormai un atteggiamento passibile dell’accusa di crudeltà mentale, da cui ogni tribunale ci sbatterebbe fuori di casa? Siamo nel deserto come Abramo, non abbiamo più nulla anche se abbiamo tutto. Per essere padri dobbiamo appartenere ad un Padre, fare esperienza della Sua paternità verso di noi e questo è possibile secondo l’agire di Abramo, agire supremo che è la fede in Dio Padre, il suo chiamarlo al nostro fianco. “Uno non può essere padre, generatore, se non ha nessuno come padre. Non “se non ha avuto”, ma se “non ha” nessuno come padre. Perché se non ha nessuno come padre, vuol dire che non si tratta di un avvenimento, non è un incontro, non è una generazione. La generazione è un atto presente” (3). Il nostro tornare a casa non può che passare attraverso i mille tentativi di chi deve reimparare a vivere e ad essere un padre, un marito e un maschio, tentativi dei quali non possiamo conoscere a priori la giustizia e la bontà, ma per i quali possiamo contare sulla presenza del Padre quando ci affidiamo totalmente a Lui.

(1) vedi il bellissimo articolo: “Storia di una presenza” di Enzo Piccinini su “Tracce” n. 5, maggio 2001.

(2) relazione di Claudio Risé, Cazzago, Sabato pomeriggio 29 settembre 2001

(3) don Giussani citato in articolo al punto (1)