I dubbi delle donne sul modello donna
Il Foglio del 30/11/05 pubblica quattro interventi di donne che discutono di quale dovrebbe essere il modello “ideale” femminile.
Lo spunto è dato da una lettera di Caterina Soffici che contesta alle giornaliste del quotidiano un’idea un po’ retrò di donna, che finirebbe per riportarla al tradizionale ruolo di angelo del focolare baluardo dei valori veri e la cui fine ha segnato la disgregazione delle famiglie patriarcali. Una donna, insomma, molto somigliante a quella della famosa pubblicità del Mulino Bianco, distante dalla realtà e dall’autentica condizione femminile.
Le rispondono, su più piani, Nicoletta Tiliacos, Eugenia Roccella e Lucetta Scaraffia.
Per Tiliacos, esclusa ogni rivalutazione dei valori “forti” patriarcali, ancora prevalenti nei paesi musulmani, il modello femminile proposto e “imposto” (bellezza, giovinezza riproduttiva, maternità programmata, aborto “confortevole”, carriera), e le possibilità offerte dalla tecnoscienza, rappresentano il volto moderno e seducente del patriarcato.
Roccella, rivendicando la libertà femminile di vivere secondo le proprie preferenze soggettive, riflette su limite e onnipotenza, su perfezione e imperfezione. Nessuno osa più ricordare che ogni scelta ha un costo, …..che si diventa adulti quando si abbandona l’onnipotenza del desiderio e si approda alla coscienza del limite. L’illusione femminile è quella di poter far proprio un modello di realizzazione inventato dall’uomo per se stesso; il rischio è quello di trasformarsi in una forma debole di uomo pubblico, mentre invece le donne dovrebbero puntare ad una elaborazione autonoma, lontana tanto dalla tramontata tradizione patriarcale che dai nuovi modelli falsamente neutri, dando centralità al materno e all’etica della cura.
Sugli stessi toni, infine, Scaraffia rivendica la possibilità che la realizzazione individuale possa essere cercata anche fuori dall’ufficio, e che si possa scegliere di fare le mogli madri senza essere accusate di voler cancellare l’emancipazione femminile. Il modello di emancipazione prevalente ha cancellato la specificità femminile, ma soprattutto si è affermata l’idea che la parità delle donne si possa realizzare solo se esse si liberano dal loro destino fisiologico, cioè se rinunciano alla maternità o la riducono entro spazi minimi della loro vita. Dal fallimento di quel modello, la cui immagine ricorrente è quella della quarantenne sola e senza figli, nasce la critica a un’idea semplicistica e meccanica della procreazione, quella che porta alla programmazione familiare ed ai metodi di riproduzione artificiale. Si dovrebbe, invece, modificare la società in modo da permettere alle donne giovani di avere figli, e lasciare più spazio al “caso”, consci che la felicità non sta solo nella realizzazione dei desideri e che la vita, se l’accettiamo nelle sue differenze e nei suoi imprevisti, ci può dare molto di più.
Credo che questa discussione all’interno del mondo femminile sia da guardare con interesse, in quanto presa di coscienza che l’emancipazionismo non solo ha ingabbiato le donne in uno schema precostituito, ma ha un carattere ideologico in quanto postula che la condizione della libertà sia il superamento del limite fisiologico, e quindi naturale.
Tuttavia l’impostazione del problema, così come lo pongono le giornaliste e collaboratrici de Il Foglio, ha alcuni importanti limiti, che sono in relazione reciproca.
I primo è l’autoreferenzialità. Quando Scaraffia auspica i mutamenti sociali, dimentica, e certo conoscendo le sue idee non lo fa intenzionalmente, che i figli, ancorché partoriti dalla donna, dovrebbero normalmente nascere nell’ambito di una famiglia, istituzionale o di fatto qui poco importa. I figli, cioè, non sono un tema da trattare in ambito esclusivamente femminile ma coinvolgono anche l’uomo/padre, e dunque i mutamenti dovrebbero essere pensati per permettere alle coppie di avere figli da giovani, con quel che implica intermini di politica familiare complessiva.
La stessa “dimenticanza” del padre e della sua importanza la si ritrova in Roccella quando, molto giustamente, riflette sulla coscienza del limite e sull’abbandono dell’onnipotenza del desiderio come condizione per diventare adulti. E’ infatti il padre la figura genitoriale che, imprimendo al figlio ed alla figlia la ferita della separazione dalla madre, ne riduce l’onnipotenza. Dunque, ancora una volta, la questione paterna è fondamentale, per lo sviluppo psichico equilibrato di maschi e femmine. Trattare la questione del limite senza alcun riferimento all’eclissi del padre equivale a precludersi ogni possibilità di agire in profondità sulle cause, e quindi le riflessioni di Roccella rimangono come sospese per aria, destinate a restare un nobile auspicio.
C’è un punto che lega, non casualmente, queste omissioni. E’ il riferimento costante alle strutture patriarcali che contrassegnerebbero questa società, e al modello di realizzazione inventato dall’uomo per se stesso. Si dà cioè per scontato che l’attuale “modello” maschile sia eterno e aderente alla natura dell’uomo, e che quindi il problema coinvolga solo le donne, chiamate a distanziarsene con lo scopo di ottenere diritto di cittadinanza anche al “modello” femminile.
Le cose, però, non stanno esattamente così, nel senso che, scontato che la differenza fra maschile e femminile è in natura e deve essere valorizzata, il maschio “moderno” è anch’esso il risultato di un processo storico che ne ha mutato profondamente il modello. Nel corso degli ultimi secoli ha via via rinunciato ad essere maestro e precettore nella vita e nella scuola, ha teorizzato che il compito di educatore è meglio svolto dalla madre, trasformandosi infine nell’arido homo aeconomicus, il cui scopo principale nella vita sono i soldi e la carriera, in azienda o in politica. In nome di questi “valori” ha abbandonato le antiche prerogative paterne ritagliandosi l’unico ruolo di “provider”, e dandosi leggi che quel ruolo hanno codificato. Contrariamente a quello che i media vorrebbero farci credere, il maschio soffre profondamente di questo stato in cui si è pur volontariamente recluso. Soffre perché, magari inconsciamente, sente di aver perduto qualcosa di fondamentale, il suo antico sapere di maschio che infatti non sa più trasmettere al figlio, fino a non saper più trasmettere la vita stessa, come sembra dimostrare l’aumento vertiginoso della sterilità. Il problema dunque dell’idea di donna non può essere disgiunto da quello dell’idea di uomo, perché entrambi partecipano ai processi indotti dalla modernità, definibili come deficit d’identità. Se è giusto quindi che ciascun genere cerchi una elaborazione autonoma, non può prescindere, nel farlo, dal considerarsi parte di un processo più ampio che ha coinvolto e coinvolge l’altro e tutta la società, sia nella vita quotidiana sia nei riflessi psichici e culturali indotti. Ne risulta, altrimenti, una concezione della storia in cui all’eterno e sostanzialmente immutabile scontro fra oppressi e oppressori intesi come classi sociali, si sostituisce quello, altrettanto immutabile, fra oppressi e oppressori intesi come generi.
Armando Ermini
[12 dicembre 2005]