Le donne, la violenza, il patriarcato

Le kamikaze della metropolitana di Mosca sono solo l’ultimo episodio di violenza direttamente agita dalle donne che emerge alla luce.

Violenza che, pur in modi diversi, coinvolge l’universo femminile in paesi culturalmente distanti. In Russia (e vicinanze) e in Palestina si è manifestata sottoforma di donne/bomba, in Occidente come aumento della criminalità femminile che coinvolge ormai santuari maschili come le associazioni mafiose, o più modestamente ma non meno significativamente, sotto forma di bullismo rosa o di violenza domestica come ormai molti dati dimostrano, e che solo un sistema mediatico volutamente “disattento” si ostina ad ignorare.
Di più. Solo una rimozione semantica, un edulcoramento linguistico, consente di non far emergere l’aborto come atto violento, forse il più violento (ammesso sia possibile istituire una classificazione di questo tipo), perché colpisce un essere assolutamente indifeso.
C’è molta reticenza nell’analizzare il fenomeno, perché mina alle fondamenta l’assioma della “non violenza” femminile, il che crea sconcerto come accadde in modo evidentissimo quando furono scoperte le torturatrici di Abu Ghraib.
Per capirci qualcosa occorre intanto insistere su un fatto. E’ vero che la violenza agita in prima persona dalle donne è, ancora, molto minore di quella maschile, ma esiste anche il modo di agirla per interposta persona, delegandola. Da questo punto di vista le donne sono sempre state protagoniste a pieno titolo, nel sociale e nel personale. Dal tributo estatico a tiranni quali Hitler e Mussolini, all’incitamento ai figli maschi a trasformarsi in Kamikaze delle madri palestinesi, alle dark ladies che inducono i propri uomini ad assassinare la rivale, è tutto un fiorire di violenza delegata, e spesso indotta, dalla femmina al maschio.
Valga per tutte la testimonianza di un protagonista della guerra etnica fra Tutsi e Huti in Tanzania all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, che provocò fra i 500.000 e 1.000.000 di morti. Quell’uomo dichiarò in una intervista di aver avuto la sensazione di essere “guidato” dalla moglie nella sua “normale” attività di assassino. Usciva di casa al mattino, uccideva, stuprava e saccheggiava e tornava poi tranquillamente a casa, dove subiva i rimproveri muliebri quando il bottino non era abbastanza ricco. Significativamente, a capo delle bande di massacratori vi era una donna, Pauline Nyiramasunhuko, allora ministro della “Famiglia e della promozione femminile”, accusata di genocidio e di stupro come crimine contro l’umanità. Pauline era a capo degli squadroni della morte , autonominati “Interahamwe”, il branco, che, oltre all’assassinio indiscriminato di uomini, donne e bambini, praticavano con sistematicità lo stupro di massa, di cui, secondo dati ONU, furono vittime 250.000 donne. Il suo ruolo era quello di sovrintendere alle azioni degli squadristi, fra cui suo figlio, e di incitarli esplicitamente allo stupro, col pretesto che le donne tutsi erano orgogliose e seduttrici.
Da tutto questo risulta intanto smentita la tesi più drastica o, a seconda delle preferenze più ingenua o più ipocrita, secondo cui la “non violenza” sarebbe corredo genetico delle donne. Lo sostiene il prof. U. Veronesi, per il quale “la donna è biologicamente non violenta: non uccide e non si uccide”.
Ma non c’è solo l’osservazione della realtà a smentire questa tesi. Il ricorso alla biologia, dunque alla natura, porta infatti da tutt’altra parte. La natura è un flusso continuo di creazione e distruzione, tanto la natura inorganica quanto l’organica, compresa la specia umana. Per Umberto Galimberti, http://www.maschiselvatici.it/index.php?view=article&catid=35%3Adonne-madri-e-grandi-madri-terribili&id=385%3A-la-tortura-delle-donne&format=pdf&option=com_content&Itemid=37, la donna è più capace di amare ma anche di odiare e distruggere, e proprio in virtù della sua maggiore vicinanza col corpo e con la natura rispetto all’uomo il cui luogo specifico è la storia, dunque l’elemento culturale e la connessa capacità di valutazione etica o di giudizio morale (il bene e il male).
L’imbarazzo generato dai fatti, induce i sostenitori di questa ipotesi a sostenere che la violenza femminile sarebbe una imitazione di quella degli uomini, di cui l’altra metà del cielo avrebbe assunto i difetti. Alla base ci sarebbe sempre l’oppressione patriarcale, i cui canoni culturali le donne sarebbero indotte ad assumere come propri. Inutile dire che in questo modo si imprime al femminile lo stigma peggiore, quello della non piena capacità di intendere e di volere. C’è anche un altro particolare. Molte/i di coloro che pensano in questo modo, sostengono anche, trionfalmente, che il Patriarcato è finito o in procinto di esaurirsi. Delle due l’una, allora. O non è vero che il Patriarcato è finito, oppure non è vera la natura femminile intrinsecamente aliena alla violenza.
Chi meno si cura della contraddizione è il femminismo dell’uguaglianza, secondo il quale la differenza di genere è un costrutto culturale generato, anche qui, dall’oppressione maschile. Ne risulta che l’emergere della violenza femminile, una volta decostruito il paradigma culturale della differenza, è “normale”. Rimane da spiegare però, perché gli uomini si sarebbero affermati a spese delle donne, opprimendole. Solo per i rapporti di forza (fisica) o per altri motivi? Ci tornerò fra poco, notando per ora che la corsa alla richiesta di uguaglianza si concentra sui luoghi del potere, lasciando accuratamente da parte ogni settore lavorativo in cui esistono rischi e fatica.

Naturalmente ci sono, soprattutto all’interno del mondo femminile perché per quello maschile l’argomento è di solito tabù, posizioni più articolate. Lidia Menapace distingue, ad esempio, fra la capacità di violenza della donna come persona singola, e le pratiche non violente dei movimenti femminili, seppure ammettendo che anche in alcuni di essi era ammessa e teorizzata. Ancora, in un convegno del 2004 dal titolo “Guerra, torture, aguzzine”, è emersa la contraddizione fra la realtà e “l’immagine salvifica della donna, considerata il genere sessuale buono per natura, il cui scopo è salvare e civilizzare il maschio, violento e dominatore per natura”. Sempre in quel convegno, mentre Elena Montecchi, per evitare di confrontarsi approfonditamente col problema, tendeva a ridurre i casi di violenza femminile alla moralità delle singole donne , Luana Zanella ammetteva senza mezzi termini che “il dualismo differenza/omologazione, secondo cui la donna è diversa dall’uomo e se si comporta come lui è perché si sta adeguando al suo modo di essere e di fare, non basta”. La teorica del pensiero della differenza Luce Irigary, scrive a sua volta che “forse le donne che, per tanti secoli, hanno provato contro di sé la violenza patita, hanno bisogno di farla uscire, di manifestarla esteriormente”, ma esprime anche la consapevolezza che “fermarsi alla critica o all’identificazione all’oppressore non possono essere un modo di acquisire una vera autonomia”.
Posizione autonoma ha l’indiana Vandana Shiva. Partendo dalla critica alla separazione concettuale cartesiana fra uomo e natura, in funzione della quale la seconda è il contorno del primo e non la sua sostanza, e dunque fatta per essere sfruttata e dominata perché inferiore, istituisce un’analogia fra misconoscimento della natura, da cui le crisi ecologiche, e il misconoscimento del lavoro femminile, dal quale derivano sessismo e disuguaglianza. Secondo la Shiva, il femminismo occidentale rimane nell’ambito delle categorie di pensiero patriarcali, sia quando teorizza la liberazione della donna come liberazione dalla schiavitù della biologia che la relega nel ruolo di moglie e madre, sia quando si propone di assumere come un valore la passività femminile sulla quale fondare la liberazione dell’umanità. In entrambi i casi saremmo nel modello sessista per il quale maschile e femminile sono categorie determinate biologicamente. Secondo la Shiva è sbagliato associare la maschilità all’attività e alla violenza, e la femminilità alla passività e alla non violenza.
Maschilità e femminilità sono costruite socialmente e culturalmente, e in una ideologia non basata sul sesso non si possono separare il maschile dal femminile, e la persona dalla natura. Sennonchè sostiene poi che la non violenza creativa sarebbe l’estrinsecazione del principio femminile come espresso dal mito cosmologico indiano, per il quale la vita in tutte le sue forme si sprigiona dallo stesso principio femminile Sakti, rintracciabile non solo nella natura e nella donna, ma anche nell’uomo. Sarebbe dunque la visione femminile (nella donna e nell’uomo) a consentire la logica della sopravvivenza in un contesto di lungo periodo, in opposizione alle categorie patriarcali dell’Occidente. Quello che esce dalla porta, rientra dunque dalla finestra. Si nega il primato della biologia in nome del non sessismo, ma si afferma il primato “metafisico” del principio femminile, pacifico, non violento e inclusivo, il solo a consentire a lungo termine una vita armoniosa sul pianeta terra. Di più, anche in questo caso rimane oscuro il perché gli uomini avrebbero deciso di opprimere le donne, a meno di pensare, di nuovo, ad una differenza fra i generi sessuali fondata sulle categorie violenza/aggressività contro nonviolenza/pacificità, contraddicendo però l’assunto di partenza.
Ho voluto fare questo sintetico e del tutto insufficiente excursus sulle diverse posizioni culturali rispetto al tema della violenza femminile, perché nessuna di esse risulta convincente. O si afferma il primato, etico o biologico che sia, del principio femminile della noviolenza ma non si spiega il perché sempre più donne l’agiscono, oppure si ammette che anch’esse ne sono portatrici al pari degli uomini, ma non si spiega allora perché le donne l’avrebbero subita senza reagire per millenni e per altrettanto tempo si siano potute sentire il genere “innocente”.
In ogni caso tutto ruota intorno al concetto di Patriarcato, al suo significato concreto e alle sue origini.
A me sembra convincente la definizione che ne dette Ivan Illich, come “uno squilibrio dei poteri in una situazione di complementarietà asimmetrica dei generi”. (http://maschiselvatici.blogsome.com/2010/04/06/il-genere-e-il-sesso/). Ha più pregi.
Distingue il Patriarcato delle società tradizionali in cui esistevano spazi, o domini, di genere ( il “pubblico” per il maschile, il “privato” per il femminile), dal sessismo moderno (che, seppure solo per accenni, considera potenzialmente rivolto in ogni direzione) fondato invece sul concetto di lavoro neutro indifferentemente adatto a maschi e femmine. Individua così una caratteristica specifica delle società capitalistiche moderne, in cui il conflitto fra generi si è acuito a dismisura proprio per aver portato la competizione sullo stesso terreno. Consente inoltre di rintracciare un potere femminile nascosto perchè si esercitava per lo più all’ombra delle mura domestiche, ma in realtà maggiore di quanto non appaia nella storia ufficiale che guarda di preferenza agli accadimenti pubblici, in cui erano indubbiamente sovrani i maschi.

Vi è una conseguenza importante che si trae da questa definizione di patriarcato. La divisione sociale del lavoro vigente nelle società tradizionali, o più precisamente dei compiti necessari alla vita delle comunità, ha implicato l’assunzione da parte maschile dell’onere della difesa del territorio, e dunque della guerra e della violenza, sollevandone le donne non solo perché meno forti fisicamente, ma anche perché “preziose” per la comunità come generatrici di figli e addette alla loro cura. Questo non ha naturalmente impedito loro di esercitare una influenza silenziosa sul mondo maschile, anche per quanto riguarda l’esercizio della violenza, ma nel corso dei millenni ha consentito il sedimentarsi delle equazioni: maschile=violenza=guerra, femminile=non violenza=pace , come attribuzioni ontologiche di genere.
Credo che se quelle equazioni sono tutt’ora radicate in gran parte della coscienza collettiva, nonostante che la società moderna sia già post-patriarcale (come ammette la femminista Ida Dominijanni), e nonostante che le evidenze della realtà siano sempre più contrastanti rispetto ad esse, ci sia anche una ragione forte oltre il pensiero diciamo così abitudinario.
Adriano Sofri, nel commentare il genocidio in Tanzania di cui scrivevo all’inizio, scrisse: “Pauline . . . . .infrange l’idea che le donne non abbiano a che fare con questo orrore. Idea che è a sua volta un pregiudizio: ma uno di quelli che sarebbe stato bello tenersi”.
Vi è condensata l’amarezza per la caduta dell’illusione. Assumendosi l’onere doloroso e lacerante della violenza, i maschi, per non cadere nel vuoto del nichilismo e della disperazione, hanno avuto bisogno di costruire oasi di pace e di innocenza in cui rifugiarsi per rigenerarsi, e in cui dare concretezza terrena e visibile all’idea del bene. Nessuno meglio della donna, con la sua bellezza e il suo fascino magnetico sull’uomo, poteva (e ancora può) assolvere alla necessità. Naturalmente il corollario di questa pur necessaria operazione di illusione ottica è stata la rimozione congiunta da parte degli uomini e delle donne del lato oscuro del femminile, e l’attribuzione di ogni comportamento deviante delle donne, o a personali patologie oppure alla nefasta influenza maschile. Oggi che le donne hanno l’ambizione ad assurgere al ruolo di protagoniste in ogni campo della vita sociale, è ora che se ne prenda coscienza, per quanto difficile e doloroso sia.
Rimane da cercare di capire perché, già in epoche preistoriche, gli uomini si sono affermati, per qualcuno a spese delle donne, e la società ha assunto la forma del Patriarcato.
Intanto sono subito da eliminare come contraddittorie, e dunque inconsistenti, tutte quelle teorie, per lo più di origine femminista, che partono dai seguenti assunti:
1) L’unica vera differenza fra donne e uomini è nella forza fisica e nell’aggressività. Non solo non esistono differenze di capacità intellettiva (e ovviamente concordiamo) , ma per tutta una serie di attività essenziali per assicurare al genere umano pace ed equilibrio sociale, le donne sarebbero meglio predisposte degli uomini.
2) Il Patriarcato è un sistema che assicura agli uomini vantaggi ingiusti rispetto alle donne, e nel complesso a detrimento della libertà e della felicità di tutti.
3) A dimostrazione della non ineluttabilità del sistema patriarcale, si sostiene che ci sarebbe stata un’epoca, prepatriarcale, in cui la società sarebbe stata organizzata, anche sociologicamente, su principi matriarcali che assicuravano equilibrio sociale e libertà.

A parte la veridicità storica del matriarcato, mutuata dagli studi di Bachofen poi ripresi da Engels nel suo celebre “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”, che molti studiosi reputano inconsistente, queste tesi non riescono a spiegare molte cose.
In primo luogo la questione che sia stato il differenziale di forza fisica ad aver determinato la prevalenza maschile. Fosse così, le scimmie o altri primati, decisamente più robusti della specie umana, dominerebbero il mondo. O si ammette una superiorità maschile anche in altri campi che non siano la pura forza, dunque capacità organizzative, inventività, creatività, intelligenza, capacità di pensiero astratto, e dunque il Patriarcato si spiegherebbe e giustificherebbe da solo, segnando con ciò l’intrinseca inferiorità delle donne e contraddicendo l’assunto iniziale, o deve esserci altro, evidentemente.
Non solo. Se le società matriarcali fossero state quell’eden che si favoleggia, quale ragione avrebbero avuto gli uomini di sovvertirle? E perché avrebbero deciso di opprimere l’altra metà del cielo, se non per congenita malvagità e stupidità? Ma come è possibile che un soggetto essenzialmente “stupido” e masochista, qualcuno sostiene persino rimasto ad uno stadio anteriore di evoluzione biologica rispetto alla donna, abbia potuto dominare il mondo per millenni, erigere civiltà, fondare religioni e sistemi filosofici complessi, avere insomma “inventato” la cultura umana come ci è stata tramandata fino ad oggi? E perché avrebbe eretto il suo sistema oppressivo verso la donna senza incontrare resistenze significative nel corso dei millenni, anzi con l’accordo attivo dell’altra metà del cielo?
A nessuna di queste domande viene data risposta soddisfacente, se restiamo ancorati alla dinamica oppressore/oppresso. Anche il tentativo di spiegare la prevalenza del patriarcato facendola risalire all’invasione delle pacifiche comunità agricole da parte di popoli nordici di guerrieri/cacciatori, è del tutto carente. Intanto non spiega il perché quelle popolazioni avessero adottato il patriarcato, ossia rimanda ancora il problema, e poi la teoria dell’invasione non spiega l’affermarsi di quel sistema sociale anche in luoghi esenti da invasioni, ad esempio il centro america. Infine, ammesso sia vero che l’agricoltura ha origini matriarcali, e che caratteristica principale del patriarcato siano le attività maschili di caccia/guerra/conquista, non spiega come mai quella stessa attività sia cresciuta sotto il patriarcato fino a diventare, prima della civiltà industriale, la principale se non unica forma di sostentamento del genere umano.
Dunque, né la biologia né i fattori socio/economici riescono a spiegare l’enigma. Esaminiamo allora altre ipotesi, tenendo presente una osservazione empirica che ci tornerà utile. La violenza femminile, oggi, si manifesta apertamente in un contesto di aumento generalizzato della violenza, anche maschile, o se si preferisce di un espandersi non controllato della violenza nella società. Anche la recrudescenza del terrorismo e delle guerre civili, così come la trasformazione degli eventi bellici da esercizio della violenza con modalità controllate e in certo senso ritualizzate, in stermini indifferenziati delle popolazioni civili, sembrano indicare che sempre più la violenza diventa di tutti contro tutti. Tutto ciò avviene in concomitanza con il tramonto della cultura patriarcale, da alcuni già dato per acquisito, e il riemergere a livello culturale e di coscienza collettiva, prima ancora che sociale, del principio femminile.

Secondo Erich Neumann (Storia delle origini della coscienza), la questione Matriarcato/Patriarcato deve porsi in primo luogo in termini psicologici. E’ la coscienza egoica, di natura simbolicamente maschile, che emerge e si affranca dall’archetipo prima dominante della Grande Madre, in cui domina l’inconscio e nel quale, fondamentalmente, regnava l’indistinzione fra l’io e il tu, fra l’individuo e il cosmo/natura. Porre l’accento sull’aspetto psicologico, anche nell’interpretazione dei simboli, consente a Neumann di superare le problematiche relative all’esistenza storica di un matriarcato sociologico. Perché, sostiene, le tappe dello sviluppo della coscienza che hanno determinato l’avvento del Patriarcato sono comuni, indipendentemente dalla prevalenza nel sociale del gruppo femminile o maschile. Il fatto che l’artefice del processo sia stato anche concretamente il gruppo maschile, è una conseguenza, ovvia ma non necessariamente obbligata, del simbolismo psichico che contrappone la coscienza/maschile, all’inconscio/femminile. Rimane il fatto che del processo emancipativo della coscienza hanno beneficiato tutti, anche il femminile, altrimenti impigliato anch’esso nella pura identificazione col materno, anche nel suo lato negativo e divorante. Ma le conquiste della coscienza, per Neumann, non sono mai date una volta per tutte. Il pericolo della regressione ad uno stadio precedente è costante. E’ per questo che la cultura occidentale ha dovuto operare la rimozione del lato oscuro, bestiale, e potente, della Grande Madre, mettendone invece in risalto il lato benevolo, di accudimento. Da potenza incombente la Grande Madre è divenuta la madre buona e la sposa fedele. Ora è accaduto, Neumann scriveva subito dopo la seconda guerra mondiale, che “il processo in sé positivo dell’emancipazione dell’io e della coscienza dallo strapotere dell’inconscio, è diventato negativo”, avendo trasformato la divisione dei sistemi conscio/inconscio, necessari al sorgere del canone culturale ed alla coscienza morale, in vera e propria dissociazione, fino alla negazione dello stesso inconscio. Così rimosso ma non sparito, l’inconscio è libero di agire in modo sotterraneo, riuscendo a indirizzare l’agire concreto del’uomo moderno, regredito da individuo a uomo massa. “Quest’uomo di massa parziale e inconscio è opposto alla coscienza e al mondo culturale, …è irrazionale ed emotivo, anti-individuale e distruttivo.”… “I demoni e gli archetipi riacquistano la loro autonomia, la psiche individuale si fonde di nuovo con la Grande Madre terribile, e con essa perdono ogni validità l’esperienza individuale della voce e la responsabilità del singolo di fronte all’uomo e a Dio.” “Il tracollo della coscienza e del suo orientamento verso il canone culturale travolge anche l’azione dell’istanza della coscienza morale, del Super-io, nonché la maschilità della coscienza. Compare allora una femminilizzazione sotto forma di un allagamento da parte del lato inconscio..”


Un’altra ipotesi, diversa ma con alcune assonanze con la precedente, è quella di Britton Johnston (www.bibliosofia.net, traduzione di Fabio Brotto) che prende le mosse dalla teoria dell’antopologo Renè Girard. Secondo Girard, il problema fondamentale che l’umanità ha dovuto risolvere non è di ordine materiale legato al nutrimento, ma è quello del controllo della violenza indifferenziata, che si scatenerebbe in ragione dei comportamenti mimetici che inducono gli individui a desiderare per sé ciò che desiderano gli altri e dunque scatenare comportamenti violenti che portano all’autodistruzione della società. Sempre per Girard (La violenza e il sacro), non sono le differenze culturali a scatenare la violenza, ma la loro perdita (che equivale alla crisi dell’ordine culturale definito come come “sistema organizzato di differenze”) a provocare la rivalità e la lotta incontrollabile fra gli uomini. In tal caso, il solo modo per arginare la violenza generalizzata e consentire la vita associata, è quello di spostare la violenza collettiva su un soggetto terzo impossibilitato a vendicarsi, la vittima sacrificale. La violenza di cui viene fatto oggetto assume così una valenza purificatrice per la comunità. Per Girard è questo, di argine alla violenza distruttiva, il senso e la funzione delle religioni e del Sacro che sono sempre connessi ai riti sacrificali.
Partendo da questo paradigma, Britton Johnston osserva: "Quello che intendo come principio femminile è precisamente l’insieme delle caratteristiche della femminilità che vengono esaltate nell’antropologia femminista – affettività, attenzione, confidenza, cura materna, empatia, e altre ancora. Queste caratteristiche sono bensì essenziali per la crescita e la vita umana, ma nello stesso tempo di per sé costituiscono una minaccia culturale, la minaccia dell’indifferenziazione. Queste qualità femminili tendono a cancellare confini e differenze. Come ha ha mostrato Girard, quando la differenza comincia a svanire, si sviluppa una crisi mimetica che trapassa in violenza indifferenziata. La violenza indifferenziata può distruggere completamente la comunità. La ‘medicina’ contro la crisi mimetica è il mantenimento della differenza mediante una violenza attentamente manipolata e mirata- con l’essere femminile stesso come vittima sacrificata. Pertanto il principio femminile deve essere bilanciato da un principio maschile artificialmente esagerato – aggressività e differenziazione – al fine di scongiurare la crisi mimetica. Per la cultura il patriarcato diventa il mezzo per sopravvivere”.
Per Johnston, dunque, il patriarcato nasce nelle culture agricole primitive di tipo matriarcale, come risposta alla crisi mimetica generata dall’indifferenziazione prodotta dal prevalere del principio femminile. Sarebbe dunque un rimedio, un male minore, di fronte alla prospettiva dell’autodistruzione della stessa civiltà.

Non intendo discutere della validità scientifica di queste teorie; non sono titolato né capace di farlo.
Ho cercato di esporle perché offrono chiavi di lettura sull’origine del patriarcato diverse da quelle dominanti, strette fra lo “stato di necessità” materiale e la fissazione ontologica di bene e male nei due generi sessuali.
Ed anche perché ci permettono entrambe una lettura del presente assai difforme da quella corrente, che è del tutto insufficiente a spiegarne le contraddizioni.
Sono da notare alcune interessanti analogie.
Intanto che la crisi dovuta al prevalere del principio femminile indifferenziante di Johnston è riconducibile alla regressione della maschilità della coscienza di Neumann come tendenza verso il ritorno allo stato precoscienziale dell’umanità . Sempre sulla questione degli esiti della perdita delle differenze, è da sottolineare anche l’assonananza con la tesi ricordata sopra di Ivan Illich rispetto alla competizione fra i sessi. Anche per lui è l’omologazione e non la differenziazione delle identità a provocare tensione, lotta ed alla fine prevaricazione. Più in generale, il concetto è traslabile alla situazione complessiva del mondo moderno. Sia sul piano delle singole società sviluppate, per le quali Baumann ha coniato il termine “identità liquida”, ossia debole. Uno stato cioè di non identità, in continua mutazione priva di ogni direzione che non sia l’inseguimento collettivo di status simbol costituiti da oggetti. Sia sul piano internazionale, dove la globalizzazione impone quella che Serge Latouche definisce “deculturazione” , ossia la distruzione delle identità, delle economie e più in generale delle culture tradizionali a favore di una omologazione culturale generalizzata che non solo immiserisce i popoli ma produce forti resistenze che sfociano in guerre e rivendicazioni su base etnica. Non altrimenti, Benedetto XVI sostiene che il fondamento religioso islamico trova carburante e motivi di crescita non a causa della identità cristiana dell’occidente, ma nella rinuncia ad essa.
Ancora più importante è evidenziare però che sia la tesi di Neumann sia quella di Johnston conducono ad una conclusione simile. Quali che siano gli eccessi del patriarcato, che ci sono stati quando si è univocamente accentuato il simbolismo maschile senza integrarvi quello femminile, il ritorno ad una società culturalmente e psicologicamente centrata sul principio femminile di cui si vagheggia oggi la necessità, anziché salvare la civiltà, semplicemente la distruggerebbe.
I miti dell’antichità, da quello babilonese della fondazione del mondo a quelli della Grecia classica, lo hanno già raccontato.