Una donna contro
Elvia Ficarra, Responsabile Osservatorio Famiglie Separate (Gesef), pubblica sulla rivista Tempi una lettera aperta alle Onorevoli Katia Canotti (Ds-Ulivo), Tiziana Valpiana (Rifondazione Comunista), Marida Bolognesi (Ds-Ulivo), in occasione della discussione sul progetto di legge sull’Affido condiviso in caso di separazione /divorzio.
La lettera, che in alcune parti evoca le argomentazioni di Elisabeth Badinter (La strada degli errori, Feltrinelli), è centrata sulla constatazione di una sorprendente analogia fra le argomentazioni patriarcal/borghesi e quelle di un certo femminismo della differenza, secondo le quali le donne, eterne vittime e incapaci di provvedere a sé stesse, avrebbero comunque bisogno di una speciale protezione. Da parte maschile ieri, da parte delle istituzioni e del “branco rosa burocratizzato” oggi.
Con la differenza che quest’ultimo, “facendosi interprete della persistente oppressione femminile e del necessario affrancamento, si è illuso di poter stendere a tappeto il controllo politico/elettorale sull’altra metà del cielo. Nell’intento di modificare la società, a cominciare dalla famiglia, nella direzione dei superiori valori femminili”.
“All’ideologia maschilista-borghese, che assegnava alla donna l’esclusiva funzione di moglie/madre economicamente marito-dipendente, si è sostituita la dottrina neofemminista della “differenza”. Che alla donna emancipata e tecnologizzata del ventunesimo secolo predica ancora la maternità come status sociale primario, simbiotico, compensativo. Ma – e qui sta la novità – anche come un diritto ed un potere. E, nel prevedibile caso di separazione/divorzio, come inesauribile carta di credito per garantirsi un vitalizio a carico del marito-bancomat e dello Stato.”
“Le donne – prosegue la Ficarra- fanno un uso spudorato della protezione accordata e dei vantaggi connessi, ma non ringraziano. Sanno benissimo che il vittimismo è un potere ricattatorio formidabile, perché occulto ed inattaccabile; ma non nutrono alcun rispetto verso chi glielo cuce addosso per arraffare un potere manifesto. Sono del tutto consapevoli che quelli di cui godono non sono diritti e pari opportunità conquistati lealmente. Ma privilegi, ottenuti mistificando la realtà e sbaragliando il “nemico” – l’intero genere maschile – con una annosa campagna di demonizzazione e criminalizzazione spietata. A colpi di leggi, normative e giurisprudenza anticostituzionali che calpestano sistematicamente i diritti altrui, quelli veri. Per questo non si fidano della sorellanza rappresentativa".
Ed infatti non votano per le altre donne, come dimostrato nelle ultime elezioni, nonostante le quote “rosa” imposte per legge ed una massiccia e costosa (a spese dei contribuenti) campagna istituzionale a favore delle candidature femminili.
Il motivo, sostiene l’autrice, è molto semplice. Stanno affiorando gli effetti della ultradecennale campagna “anti maschio”, che mettono in difficoltà proprio le donne, sue supposte beneficiarie.
”Le madri rammentano quando le “sorelle” del Palazzo hanno bocciato, per presunta incostituzionalità, il Ddl di un ministro coraggioso che prevedeva l’abolizione dei tribunali minorili, organo competente al sequestro legalizzato dei figli alle famiglie.
Molte tra le più convinte militanti della crociata anti-maschio stanno già sperimentando gli effetti collaterali. Vittime di se stesse, non riescono ad “emanciparsi” dalla trappola di solitudine, depressione, nevrosi ossessiva, conflittualità permanente, anaffettività e attaccamento patologico ai figli, nella quale sono imprigionate.
Altre non riescono a fronteggiare i disagi dei figli. Che agiscono lo stesso modello di comportamento vessatorio, ricattatorio e manipolante di cui sono stati vittime, strumenti e testimoni. O, in alternativa, diventano abulici, anoressici, facili prede dello “sballo” e delle baby gangs.
Le più anziane, ormai nonne, si trovano a dover difendere i figli maschi adulti, nuova generazione bersaglio della discriminazione sessista. Un autentico boomerang.
Le più previdenti si guardano bene dall’intestare qualsivoglia proprietà ad un figlio in procinto di sposarsi o diventare padre.”
L’effetto di tutto ciò è un disagio dilagante, volutamente indotto, a cui si cerca di far fronte con un crescente ricorso ai terapeuti della psiche, adulta e infantile/adolescenziale. Si assiste così ad una psichiatrizzazione del territorio, che insieme al controllo sociale “preventivo” diventa un potere che si somma “a quello dei tribunali speciali e dei servizi preposti alla tutela dell’infanzia”.
“All’autorità del padre – completamente esautorato delle sue funzioni e del suo ruolo – si è così sostituita l’autorità dello Stato. Che attraverso i suoi apparati – perlopiù al femminile – invade la famiglia e assiste, consiglia, concede benefici di varia natura, tutela, cura, sostiene. Ma al contempo controlla, valuta, diagnostica, impone, allontana, giudica e punisce. Senza consentire difesa.
Come un padre-padrone. Anzi, peggio.
Forse qualcuno ha sbagliato qualcosa? Signore Onorevoli, a voi la risposta.”
Non abbiamo molto da aggiungere a questa accusa, spietata ma circostanziata, proveniente dall’interno del mondo femminile. Sono anni che lo diciamo, ma non ci interessa la primogenitura. Ci interessa molto di più sottolineare che questi esiti nefasti originano dal rifiuto “moderno” dell’ordine simbolico assicurato dal Padre Divino, e dalla conseguente svalutazione (e allontanamento), del padre terreno che di quell’ordine era il rappresentante. Ci interessa riaffermare con forza che solo il ritorno del padre (e della famiglia) potrà riportare equilibrio e saggezza nei rapporti sociali e personali. E ci interessa dire, infine, che questo ritorno paterno e maschile non è, e non può essere visto, come contrapposizione al genere femminile, o come rivalsa contro di esso. Al contrario è interesse di tutti, e questa lettera né è testimonianza, che ci sia cooperazione nel riconoscimento delle differenze e delle rispettive prerogative, nella consapevolezza che uomini e donne rappresentano principi simbolici e concreti complementari, e che una umanità dimezzata è destinata all’infelicità.
Armando Ermini