Il suicidio maschile: perchè?

guercino

 

 

Questi i dati ISTAT ufficiali relativi ai suicidi in Italia aggiornati al 2003 (fra parentesi i dati 2002).

DECESSI PER SUICIDIO E AUTOLESIONE
Maschi: 3.078 (3.145)
Femmine: 997 (924)


DECESSI PER CLASSE DI ETA’ 15-49 ANNI
Maschi: 6.387
- Di cui per omicidio e aggressione: 341
- Di cui per suicidio e autolesione: 1.342
Femmine: 1.353
- Di cui per omicidio e aggressione: 101
- Di cui per suicidio e autolesione: 376

 

 

 

Come si può notare i suicidi maschili sono pari al 75% del totale e al 78% nella classe d’età presa in considerazione (dalla giovinezza alla piena maturità). Poco si sa di statisticamente certo sui motivi che spingono così tanti maschi a togliersi la vita. I pochi e parziali studi in proposito (http://www.famvin.org/it/modu les.php? name=News&file=article&sid=3428) ci dicono di forme depressive e disturbi della personalità, e in alta percentuale di concomitante consumo di cannabis e cocaina (nel caso dei maschi più giovani). Sembrano ipotizzare un nesso fra questi elementi ma ancora, almeno in Italia, non indagano sull’origine della depressione. In ogni caso, i numeri, molto superiori a quelli dei morti sul lavoro, sono tali che fare qualche ipotesi sui perché del suicidio è doveroso, tenuto anche conto che il fenomeno è un fatto comune in tutta Europa.
Le cronache ci parlano spesso di suicidi e omicidi compiuti da uomini che a causa di separazioni coniugali hanno improvvisamente perduto famiglia, figli, casa, oppure da uomini che, privati del lavoro cui si sono dedicati tutta la vita, perdono ogni speranza e si uccidono. Giornalisti, sociologi, e (pseudo) psicologi/ghe tendono a spiegare il fenomeno con una supposta maggiore fragilità maschile di fronte alle avversità della vita rispetto a una maggiore saldezza delle donne, capaci invece in tali situazioni di ritrovare la forza di vivere dedicandosi con passione ad altro, ad esempio ai figli o alla casa. Argomentazioni simili si ascoltano anche parlando direttamente con amiche, mogli o amanti: quasi un ritornello. Ecco uno dei tipici refrain: "Voi uomini quando perdete il lavoro andate in depressione e vi disperate, noi invece siamo capaci di continuare a vivere”.
Se la categoria della “fragilità” psichica è dedotta a posteriori dai numeri e dunque senza un’interpretazione che aiuti a capire il fenomeno, tuttavia negli argomenti degli “esperti” e nei luoghi comuni esiste un nocciolo di verità, non certo attinente alla fragilità quanto piuttosto al modo diverso con cui maschi e femmine si pongono di fronte al mondo e concepiscono se stessi in rapporto ad esso. Diversità che ha una spiegazione culturale e che, a sua volta, rimanda alla natura stessa dei maschi e delle femmine. Sul piano sociale non c’è dubbio che la pressione cui sono sottoposti gli uomini è nettamente superiore a quella delle donne. Di un maschio che non ha fatto carriera si è soliti dire che è un fallito, o uno sfigato se non ha successo con le donne, attribuzioni che non trovano corrispettivo al femminile. Ed anche quando una famiglia si sfascia si tende ad attribuire all’uomo le maggiori colpe e responsabilità, come dimostra il fatto che i figli sono poi sistematicamente affidati alla madre.
Di fatto, nonostante i tanti cambiamenti sociali avvenuti negli ultimi decenni, al maschio si continuano a chiedere le stesse cose di sempre (ricchezza, potere, successo, prestanza sessuale), anche da parte delle donne così dette emancipate. Anzi, se da un lato la società dei consumi ha accentuato di fatto queste richieste a scapito di altre funzioni maschili e paterne, come quella educativa ad esempio, dall’altro l’ambiente complessivo entro il quale questa pressione viene esercitata è diventato, per il maschio, molto più difficile di prima, in forza delle dinamiche economiche più rapide e del pericolo (o paura) di perdere in breve tempo ciò che si è faticosamente conquistato. E non che, almeno, gli uomini siano lasciati in pace da dedicarsi a ciò che da loro ci si aspetta, perché contemporaneamente è cresciuta a dismisura la richiesta, che ormai potremmo chiamare “intimidazione” sotto pena di scomunica sociale (vedasi Spagna), di collaborare ai lavori domestici in modo paritario per permettere alla moglie di realizzarsi sul lavoro. (E si noti che, nell’opinione comune, per la donna il lavoro è un modo, naturalmente legittimo, di realizzarsi, mentre per un maschio è un obbligo sociale e verso la famiglia).
Non c’è dunque da meravigliarsi se le difficoltà della vita lavorativa gettino gli uomini nella disperazione più cupa, anche perché la perdita del lavoro e del benessere economico implica quasi automaticamente la perdita della famiglia, dei figli, della casa, cioè di tutto ciò per cui l’uomo si è sempre dato da fare nella vita.
Ma questo è solo l’aspetto più superficiale del problema. Mentre per la donna il modo tipico di manifestare amore verso il marito o i figli è, ancora oggi, quello della cura della casa e dell’accudimento, per l’uomo il corrispettivo sta nella capacità di offrire ai propri cari sostentamento e benessere. Nessuna meraviglia quindi che il maschio percepisca la perdita del lavoro come un trauma che incide profondamente non solo sul benessere che non è più in grado di procurare alla famiglia e quindi sulla negata stima sociale conseguente, ma soprattutto sull’autostima e sul valore che il maschio percepisce di sé.
Ivan Illich, in Genere e sesso, racconta di una tranquilla cittadina industriale statunitense dove nel primo ’900, in seguito alla chiusura della fabbrica tessile presso cui lavoravano la gran parte degli abitanti maschi, si registrò una impennata vertiginosa di separazioni familiari, violenze, omicidi e suicidi. È del tutto ozioso discutere se questo tipo di reazione nasce dalla natura maschile e femminile, oppure se è frutto di millenni di cultura. È noto che le culture non nascono e non si strutturano mai casualmente o per pura volontà di un gruppo umano, ma (pur nella loro diversità) si innestano sempre su elementi naturali. E’ la fisiologia dei corpi che costituisce la base psichica dei caratteri di genere. E se anche così non fosse, poco cambierebbe. Sarebbe solo la dimostrazione che la cultura incide in profondità sulla psiche tanto da non potersi più scindere da essa.
Il suicidio, come altri comportamenti antisociali che colpiscono in maggioranza gli uomini (droga, alcolismo, comportamenti a rischio) e su cui è doveroso si apra in Italia una riflessione seria oltre la scontata esecrazione, rimanda sempre, al di là delle motivazioni individuali, alla perdita di senso e di ragioni di vivere. In termini simbolici il femminile è corpo, dunque natura, il maschile è storia, dunque cultura, come ammette anche l’insospettabile Umberto Galimberti. Questo fatto non è privo di conseguenze sulla psiche, nel senso che il maschio più della femmina, ancorata con più saldezza alle certezze del corpo e della terra, necessita di un ambiente culturale che gli faccia percepire il senso della sua esistenza. Ed allora occorre dire che il repentino stravolgimento sociale a cui abbiamo assistito nell’ultimo secolo e più ancora dal secondo dopoguerra ad oggi, unito alla secolarizzazione del mondo occidentale che ha proiettato l’umanità in una dimensione autoreferenziale e priva di riferimenti all’ordine simbolico del Padre, hanno avuto come effetto proprio lo smarrimento della ragione di vivere che, per la diversità di genere accennata sopra, colpisce più i maschi che le femmine. Dunque il disagio maschile è il sintomo di una percezione di estraneità rispetto a una società che l’uomo non sente più a sua misura. Ma se il connotato specifico del maschile è la “cultura” e quello del femminile è la “natura”, i sintomi della crisi maschile significano immediatamente crisi culturale e dunque della civiltà stessa. Chi esulta per la fine del patriarcato e semplifica i suicidi maschili come incapacità di affrontare i nuovi contesti sociali assunti come un dato, non si rende conto che il mondo post- maschile non sarà affatto il regno della libertà. Esso sarà invece un mondo regredito sul piano psichico e culturale. Fatto che in realtà sta già accadendo: basta osservarsi intorno. Erich Neumann, dopo la seconda guerra mondiale aveva intuito il fenomeno parlando di “ricollettivizzazione delle masse” e di femminilizzazione della coscienza, intendendo con tale termine un nuovo prevalere dell’elemento inconscio il quale, rimosso a causa dell’eccesso di razionalità che contraddistingue il mondo moderno, è stato lasciato libero di agire nell’ombra e di informare di sé i comportamenti reali dell’umanità. Questo fenomeno chiama direttamente in causa il mondo maschile in qualità di costruttore di questa società, ma non si vede quali vantaggi, se non una effimera e provvisoria ebbrezza di potere, possa trarre il mondo femminile dall’eclisse del maschio, di cui i suicidi sono sintomo.

[15 ottobre 2008]