La virilità disoccupata

virilità“Il Foglio” del 22 aprile 2006 ospita in prima pagina un’intervista al prof. Harvey C. Mansfield, autore di una recente pubblicazione dal titolo Manliness (Virilità) (Yale University Press, 2006).

Il prof. Mansfield definisce la virilità come fiducia in una situazione di rischio il quale può essere tanto un pericolo quanto una situazione di competizione in cui si contesta l’autorità del soggetto coinvolto…L’uomo virile - scrive – è precisamente quello che non cambia il proprio comportamento a seconda delle circostanze e non ricorre all’inganno. La virilità esiste in natura come desiderio di affermazione che si manifesta anche con un potenziale aggressivo, tuttavia oggi svalutato dagli studi scientifici come prepotenza di bassa lega. E’ per questo motivo che, per risalire alla nozione complessiva di virilità, più che alla scienza ci si deve rivolgere alla letteratura (Omero, Hemingway…).
Oggi, ed è la tesi centrale del libro, questa virilità è disoccupata. Lo è perché per la prima volta nella storia stiamo sperimentando una società neutrale rispetto ai generi, che si propone di annullare le differenze sessuali e quindi non definisce i tuoi diritti, i tuoi doveri e sicuramente non il tuo posto… Non esiste alcun impiego onesto o onorevole per gli uomini virili. Così la virilità, e ovviamente anche la femminilità, non sono più modelli che possono guidare il nostro comportamento.
E’ evidente l’analogia col pensiero di Ivan Illich sulla scomparsa del genere vernacolare, ma mentre Illich faceva derivare la neutralità dalle necessità del processo produttivo, e quindi dall’industrialismo, Mansfield mette piuttosto l’accento sulla filosofia moderna, in particolare sulla filosofia politica, secondo la quale gli uomini sono troppo orgogliosi e il loro orgoglio li conduce al terrore e a vani conflitti, soprattutto per questioni religiose. Per contrastare queste tendenze gli esseri umani dovrebbero pensare a se stessi come esseri dotati di diritti, in particolare del diritto all’ autoconservazione o alla vita o alla libertà, anziché concentrarsi sulla dignità e l’orgoglio.
Si ammette comunemente che regimi sociali e stili di vita diversi influenzano la virilità, ma l’errore di base di questi studi sta nel vedere una dicotomia tra ciò che è naturale e ciò che è culturale o politico, quando invece sono un binomio, in cui il politico perfeziona o storpia il naturale.
Da questa affermazione ci sembra discendano conseguenze importanti: se l’elemento naturale e quello culturale vengono giustapposti, e se si affida al culturale il compito di “correggere” il naturale, si arriva direttamente al concetto di “rieducazione”, che sarà necessariamente rivolta ai maschi in quanto portatori di caratteri considerati in sé negativi. Non si tratta più di mettere al servizio della comunità le caratteristiche naturali degli uomini, ma di estirparle in favore di una visione della vita dominata dal concetto femminile di autoconservazione. Quando parliamo di femminilizzazione e di dominanza dell’archetipo grandematerno nelle società moderne, ci si riferisce proprio a questo, non certo al numero di donne che fanno carriera professionale. Non deve stupire allora il disagio maschile, il non sapere più “come deve essere un uomo”, né che l’aggressività negata e rimossa esploda poi in modo incontrollato.
Sono spunti interessanti, di fronte ai quali lascia perplessi la parte dell’intervista in cui Mansfield sostiene che il nichilismo delle società moderne non elimina la virilità, ma anzi la intensifica. Dice Mansfield: Il motivo è che la virilità ama le situazioni in cui si trova ad essere la fonte suprema di significato. Quindi più assediato si sente l’uomo, più virile diventa… Il nichilismo attrae la virilità perché quest’ultima ama il dramma, in particolare quelle situazioni in cui l’uomo virile è l’unica fonte di significato, in cui egli è assediato da ogni parte e non può appoggiarsi a nessuno perché tutto dipende da lui.
Ora, poiché il nichilismo domina la modernità, come si concilia l’intensificazione della virilità con la sua “disoccupazione”? L’unica risposta possibile, ci sembra, è che il nichilismo, proprio perché toglie ogni possibilità di significato, intensifica nel maschio proprio quella virilità ctonia, inferiore, che Mansfield stigmatizza. L’uomo si è sempre confrontato con la verità e ne ha sempre ricercato la fonte fuori da sé. Ha fondato religioni ed elevato templi proprio perché cosciente che non tutto dipende da lui, e la virilità non ne ha mai sofferto, anzi.
Col concetto di virilità nichilista (estrapolato da Nietzsche) si è confrontato, secondo Mansfield, anche il movimento femminista (Simone de Beavuoir), per elaborare la tesi dell’autodeterminazione dell’identità femminile. Mentre solo l’uomo si pensava come essere trascendente (inteso come autosufficiente), ora può pensarsi tale anche la donna. Il che è vero, ma sono proprio gli esiti catastrofici dell’autoreferenzialità dei generi (perdita di senso, incomunicabilità, mancanza di un principio unificante forte), che dovrebbero far riflettere sulla necessità, e sul bisogno, di cercare un riferimento altro, ossia di rinunciare all’onnipotenza. Altra cosa sarebbe stato dire che femminile e maschile dovrebbero confrontarsi con la propria parte controsessuale (animus nella donna, anima nell’uomo), per integrarla dentro di sé con lo scopo non di deprimere o castrare, ma anzi di esaltare la femminilità e la virilità.
L’accenno al femminismo introduce all’ultimo, inevitabile argomento della posizione delle donne nella società. Mansfield, a riguardo, parte da alcune osservazioni: da una parte sostiene che molte donne, nutrendo risentimento verso gli uomini e volendo affermare la loro parità con l’altro sesso, cercano di non farli sentire importanti. Dall’altra, lo studioso critica il modo con cui si è declinato il concetto di parità. Le donne sono importanti quanto gli uomini, solo in un modo diverso. Desiderano essere importanti, in particolare per il loro uomo, non tanto in senso astratto e universale. Osservazione molto vera, dalla quale fa discendere una interessante proposta tesa a superare le contraddizioni fra i generi, e fondata su una revisione dei concetti di pubblico e privato.
Non vogliamo tornare alla nozione che le donne appartengono alla sfera del privato, mentre gli uomini a quella del pubblico… non vogliamo riportare le donne in casa e chiudercele dentro. Le donne, sostiene il professore, sono in grado di svolgere perfettamente vari lavori e non si confà più loro una dimensione esclusivamente privata.
Quindi non dobbiamo tornare indietro a tracciare il confine fra pubblico e privato in base al sesso, tuttavia dobbiamo separare il pubblico e il privato, perché nel pubblico dobbiamo offrire pari opportunità di carriera a donne e uomini, senza però aspettarci che tali carriere siano esattamente uguali per entrambi. C’è in questa tesi, al tempo stesso, il riconoscimento della libertà femminile e la sottolineatura di una forzatura ideologica che ci sembra stia inquinando la vita sociale, ossia che i due generi debbano necessariamente avere gli stessi interessi, gli stessi obbiettivi, gli stessi scopi nella vita. Fatto proprio questo assunto, peraltro contraddetto sia dalla psicologia che dalle ricerche sociologiche, ne discende che, ogni qualvolta la distribuzione dei posti di “potere” risulta non omogenea fra maschi e femmine, la causa è da attribuirsi alla prevaricazione maschile. Da qui tutti quei provvedimenti, le così dette “azioni positive”, tesi a rendere uguale per legge la presenza di uomini e donne in determinati posti (dalle istituzioni parlamentari fino alle direzione di aziende private come in Norvegia), che hanno la curiosa caratteristica di prescindere dalle donne reali. Secondo Mansfield, invece, nella sfera del privato dobbiamo tenere conto delle differenze fra i sessi per quanto riguarda la virilità, la riservatezza delle donne e la loro dimensione domestica.
Manca, è vero, ogni riferimento ai ruoli e alle funzioni paterne e materne, che pure sono costitutivi dell’essere maschi o femmine, però l’impostazione del tema uguaglianza/differenza fra i generi appare molto convincente.

Armando Ermini

[02 aprile 2006]