Ritalin farmaco sessista

E’ qualche anno, ormai, che si parla del Ritalin e dell’ADHD (Sindrome da iperattività e disattenzione), la “malattia” che dovrebbe curare.

I commentatori ne hanno evidenziato molti aspetti, diciamo così, oscuri o problematici: l’impalpabilità della sua definizione sul piano scientifico, gli assurdi e approssimativi criteri con cui viene diagnosticata ( 9 domande del tipo, ad esempio, se “il bambino ha difficoltà a giocare quietamente”, la risposta positiva a sei delle quali implica la diagnosi di malattia), la conseguente vertiginosa impennata dei soggetti definiti affetti dalla sindrome, il fatto che il Ritalin è uno psicofarmaco contenente amfetamina, la pericolosità della sua somministrazione ai bambini in termini di blocco della crescita fisica (minor peso e altezza rispetto a chi non ne fa uso), e psichica (dipendenza da sostanze droganti come i cocainomani), nonché di effetti “collaterali” a lungo termine sul corpo e sul cervello di cui niente ancora sappiamo. Per alcuni commentatori la nuova patologia è la conseguenza del mutato sistema di vita (tempi e ritmi di lavoro) con conseguenti minori possibilità di cura dei figli da parte dei genitori e diversa e erronea percezione dei loro comportamenti immediatamente definiti asociali o direttamente antisociali. Altri imputano l’esplosione dell’HDAD ad una precisa strategia delle multinazionali farmaceutiche interessate ai profitti enormi conseguenti alla vendita del farmaco. Credo che queste critiche colgano nel segno e prese nel loro insieme tratteggino una situazione di grande delicatezza.
Quasi nessuno mette però in evidenza che l’80% dei bambini dichiarati affetti da ADHD è di genere maschile, fenomeno che esigerebbe una spiegazione sulle cause nonché sulle conseguenze.
E dunque:

1- Perché i maschi? La risposta appare abbastanza semplice. Da sempre i bambini hanno una fisicità più esuberante delle bambine. Si muovono, sono irrequieti, distratti dall’esterno, sono portati a giochi fisicamente competitivi e aggressivi e così via. Chiunque abbia esperienza, anche nel solo ricordo, di comunità infantili lo può constatare. Ci si può chiedere allora: a) Se questa irrequietezza naturale sia aumentata negli ultimi decenni e se si perchè e, b) Se invece il punto sia che queste caratteristiche sono percepite come disturbanti solo oggi mentre invece prima erano considerate normali. Non credo esistano ricerche tese a rispondere a queste domande, ma la mia sensazione, dedotta da osservazioni indirette, è che i due fattori siano in stretta relazione. I bambini di entrambi i sessi, per loro natura, necessitano di attenzione, di regole e di contenimento. Quando mancano è pensabile sviluppino maggiormente comportamenti aggressivi o “devianti” proprio per richiamare l’attenzione dei genitori e degli adulti, quasi richiedessero inconsciamente di essere guidati e regolati. Ora, se consideriamo da una parte che molte madri oggi lavorano (e molte delle altre vivono la disoccupazione non come scelta ma come frustrazione con tutto ciò che implica), e dall’altra che i padri sono stati risucchiati dal lavoro in misura crescente (20% di tempo lavorativo in più negli Usa rispetto all’anteguerra) e sono spesso espulsi dalla famiglia, non c’è dubbio che la presenza dei genitori nella vita dei figli è diminuita. Anche dal lato qualitativo, poi, è difficile pensare ad una presenza davvero valida da parte di genitori alle prese con la necessità di concentrare in poche ore tutta una serie di incombenze materiali improcrastinabili o giudicate tali. Se questo è vero, logico ipotizzare che la vivacità dei figli sia percepita come un problema e che si preferiscano bambini quieti davanti alla Tv. Chi ne fa maggiormente le spese sono ovviamente i più irrequieti per natura, i maschi, i cui comportamenti vengono facilmente percepiti come devianti. C’è già in questa analisi una parziale risposta ad un’altra importante domanda.

2- Perché viene patologizzata la vivacità maschile? A quanto detto sopra si aggiungono altri e ancora più importanti fattori. a) La crescente femminilizzazione dell’educazione, in famiglia e nella scuola. Si ha un bel pontificare sull’intercambiabilità dei ruoli, ma se il principio di autorità è sempre stato incarnato dal padre o dall’insegnante maschio, la loro assenza non è rimpiazzabile. Sia perché per la madre o l’insegnante donna è comunque difficile reinterpretarsi nel ruolo maschile di portatrice d’autorità e autorevolezza, sia perché, anche quando sia razionalmente conscia delle diversità di genere fra maschi e femmine, le riesce più difficile rapportarsi emotivamente a comportamenti estranei alla sua natura. Sarà perciò portata più facilmente a considerare patologici comportamenti che non capisce fino in fondo e che non sa gestire come sarebbe necessario. b) A questo si aggiunge il fattore società e le sue tendenze culturali. Da qualche decennio, ma il processo è iniziato molto prima, assistiamo ad una crescente svalorizzazione di tutto ciò che è maschile in favore del femminile. Il maschio viene visto come portatori di “disvalori” quali la competitività, l’aggressività, la violenza, la prevaricazione sul più debole , mentre la femmina è vista come portatrice di valori positivi, l’empatia, la sensibilità, la cooperazione, la tendenza a ricucire piuttosto che a separare , la gentilezza e così via. Che questo sia vero o meno non importa, importa che questa sia la percezione diffusa. E’ insomma l’intera società che tende a strutturarsi sulle caratteristiche femminili a partire dalla famiglia e dalla scuola, salvo poi chiedere sottobanco ai maschi di conservare i loro caratteri tradizionali e criticarli quando non sono all’altezza degli antichi fasti. Questa richiesta è inevitabile perché nessuna società, nonostante si proclami il contrario, può esistere senza un principio maschile forte e strutturato. Il punto è che senza un suo riconoscimento esplicito si crea una situazione di schizofrenia con conseguenze letali per i ragazzi maschi, che fin da piccoli ascoltano discorsi ricorrenti in famiglia e sui media sulla loro negatività e sulla loro inferiorità rispetto alle femmine, e contemporaneamente altrettante critiche quando non si comportano da maschi. c) Altro elemento ancora, strettamente correlato ai precedenti, è la voluta sparizione di ogni separatezza di genere in favore di una generalizzata promiscuità, anche nell’età in cui ogni bambino o bambina necessita di rapportarsi coi propri simili per sviluppare una salda identità di genere. Le funzioni un tempo svolte dai riti iniziatici e dall’assunzione di responsabilità educative dirette da parte dei maschi adulti per introdurre i ragazzi nel loro mondo, non sono state sostituite con nessun equivalente, e la promiscuità viene comunemente intesa come necessità da parte dei giovani maschi di adeguarsi agli standard femminili in nome delle concezioni politically correct, falsamente e ipocritamente egualitarie ma in realtà castranti per i ragazzi che necessiterebbero invece di metodi educativi (ed a scuola didattici) conformi alle loro caratteristiche. Mi sembra evidente come tutto ciò concorra pesantemente da un lato a mandare in confusione i ragazzi bombardati da messaggi contradditori e che sentono comunque estranei alla loro natura più profonda, dall’altro a far si che ogni comportamento non conforme a quello che si è deciso debba essere “normale”, venga giudicato organicamente patologico e quindi curato farmacologicamente.

3- Perché si tace sul fatto che i colpiti dall’HDAD sono per l’80% maschi? La risposta è allo stesso tempo semplice e complessa. Che l’HDAD sia una “malattia” sessista è letteralmente non dicibile. Non lo è da parte di chi ha deciso di puntarci per il proprio profitto e potere, ma non lo è neanche da molta parte di coloro che si dichiarano contrari all’uso del Ritalin. Per i primi vale quanto diciamo da sempre sulla necessità per la società dei consumi globalizzata di annullare, erodere, omologare le identità. L’uomo del futuro deve essere solo un bravo e docile androgino consumatore. Per ottenere questo scopo si devono spazzare via il padre e il maschio. Sono loro i veri ostacoli ai progetti totalitari (e quello della società dei consumi globalizzata lo è in modo subdolo e meno riconoscibile, dunque più pericoloso), anche se concepiti da altri uomini. Lo sono perché ogni resistenza al totalitarismo è sempre stata concepita e attuata da maschi. Non è un caso che i disegni di sterminio etnico prevedano, sempre, lo stupro delle donne ma l’eliminazione fisica degli uomini. Qui, naturalmente, non si tratta di uccidere fisicamente, ma psichicamente, in coerenza col totalitarismo soft del nuovo potere. La sostanza però non cambia. Per il padre siamo già a buon punto, per il maschio, già fortemente indebolito dall’assenza paterna, il colpo finale sarà la sua patologizzazione fin dai primi anni di vita, per ridurlo fisicamente e psichicamente ad una ameba. La sottomissione delle donne si attua invece facendo loro credere a) che la libertà sia libertà dal maschio e b) che consista nella crescente medicalizzazione del corpo (fecondazione artificiale, rifiuto delle mestruazioni etc). Per gli uni e le altre vale quanto diceva Michael Foucault circa il dominio del biopotere sui corpi, sul loro controllo amministrativo e burocratico. Se per il potere tacere il sessismo dell’HDAD è una necessità, per chi si dichiara oppositore, e che si colloca in genere nel campo così detto progressista, dovrebbe valere il contrario. Le cose stanno in altro modo. Il disvelamento del sessismo della sindrome da iperattività metterebbe in discussione di colpo la loro politica e la loro egemonia culturale. Queste si fondano su un’impalcatura ideologica che presuppone che ogni fenomeno sociale contenga elementi di sessismo antifemminile, da contrastare attraverso il drastico ridimensionamento, o per alcuni la sua sparizione, del principio maschile. Ed ancora, condividono col potere l’identificazione fra “progresso” scientifico e libertà dell’individuo, concepita come continua espansione dei diritti, in primo luogo di quelli femminili a lungo coartati. Sottolineare il sessismo antimaschile dell’HDAD, svelerebbe quanto siano erronei i loro presupposti e quanta vicinanza, fino in alcuni casi ad una vera e propria identificazione, ci sia col potere reale, non certo con quello che loro identificano come il potere oscurantista e clericale da abbattere e che in realtà è l’estrema forza di resistenza all’annichilimento dell’umano. Dunque anche per loro la verità è “indicibile”, e del resto mai la dicono quando un fenomeno sociale vede i maschi svantaggiati, come ad esempio nel caso degli infortuni sul lavoro o dei suicidi. In questi casi si evita sempre accuratamente di evidenziare il genere delle vittime. Farlo indurrebbe a riflettere, farebbe balenare la verità impensabile da celare, perché l’oppressore non può essere vittima. Non occorre, strategie di business a parte, che vi sia una pianificazione a tavolino da parte di un Grande Vecchio, la convergenza è nelle cose e procede in parallelo. L’opposizione è quella a “sua maestà”.
Va da sé che sul piano sociale, della patologizzazione del maschile e della medicalizzazione dei corpi (femminili e maschili), soffriranno entrambi i generi e la qualità delle loro relazioni, mentre ne trarranno vantaggi i potentati economici e i loro veri alleati, in primo luogo la casta di potere femminista.

[18 dicembre 2007]