Sulla violenza maschile
Mercoledì 5 dicembre 2007 è morta Evelina C., la donna strangolata dal marito la domenica mattina, a Gussago, a due passi da Brescia.
Alle sei del mattino Evelina, sembra in preda a una forte depressione, voleva uscire in cortile, così com’era, in camicia da notte. Il marito esasperato da precedenti analoghi episodi cerca di impedirglielo e, nel corso della lite, accecato dall’ira, così racconta il cronista, la stringe per il collo e la uccide. Di lui i vicini dicono che era un uomo per bene, dedito alla famiglia e al lavoro e che nulla, nel suo comportamento, lasciava presagire quello che sarebbe accaduto.
Questa vicenda ne richiama alla mente altre, analoghe, che il Giornale di Brescia (2 dicembre) riporta in un elenco inquietante. Si tratta degli episodi conclusisi con un omicidio tra le mura domestiche in provincia di Brescia, a partire dal 2002. Su venti, in diciotto casi l’assassino è l’uomo e per dodici volte la vittima è la moglie o la convivente. Quasi sempre la cronaca parla di uomini normali, brave persone, un muratore, un pensionato, una guardia giurata. Spesso il motivo scatenante sembra dipendere dalla paura di essere abbandonati o dall’abbandono subito. Molte volte l’assassinio viene compiuto senza premeditazione, in uno scatto d’ira. Questi fatti ci interrogano, come uomini e come maschi, e sento che se non affrontiamo la questione della violenza maschile in prima persona, la nostra sacrosanta battaglia contro la criminalizzazione del nostro genere ne risulta indebolita. Non lasciamo che siano solo le donne o i media a parlare della “nostra” violenza.
Certo la violenza non è solo appannaggio maschile, ma nelle donne assume spesso forme diverse da quella fisica, anche se le statistiche, spesso citate a sproposito, sono lì a dirci che anche le donne uccidono (sembra nel rapporto di 3-4 volte su 10 rispetto agli uomini). Ma tra le mura domestiche, nelle relazioni di coppia, prevale quasi sempre l’assassinio della donna da parte dell’uomo. Ed è su questo tipo di violenza che ritengo importante, per i maschi, interrogarsi. Ho l’impressione che l’assassinio di una donna si una forma degenerata di un archetipo che da sempre abita la psiche dell’uomo: l’archetipo del guerriero. Le domande a cui dovremmo rispondere sono molte: Perché gli uomini uccidono le donne? C’è una forma specifica della violenza maschile? E’ in relazione con la forza fisica? E’ tipico del maschio provare l’impulso a distruggere l’altro quando viene avvertito come nemico? Che rapporto abbiamo con l’Ombra dell’assassino, che si nasconde dentro di noi, nell’inconscio personale e collettivo dei maschi? Per abbozzare una risposta possiamo partire da un’ultima domanda: “Che cosa si scatena in un uomo quando è accecato dall’ira, quando diventa preda della collera?”
Nello stato psichico di accecamento dall’ira è come se nella psiche di un uomo venisse meno il controllo vigile della coscienza. In quello stato psichico un uomo entra in un contatto immediato con la sua potenza, avverte di essere una cosa sola col suo scopo e talvolta crede di essere invincibile, di poter ottenere subito quello che vuole. La distanza dalla persona che scatena l’ira si azzera e l’altro/a viene vissuto come un ostacolo al dispiegarsi compiuto della collera. Dal punto di vista della psicologia del profondo, la collera rappresenta uno stato di possessione, simile a quella religiosa, in cui l’Io si indebolisce fortemente e al suo posto si instaura un archetipo, con una carica esplosiva relativamente autonoma e ingovernabile.
Per millenni i maschi hanno provato qualcosa di simile all’accecamento dall’ira nella guerra, nel momento della battaglia, quando la paura della morte si trasforma in qualcosa d’altro: aspirazione alla vittoria, dono di sé, desiderio di distruggere l’altro, sacrificio estremo. Possiamo immaginarci l’archetipo del guerriero pensando alla divinità greca e latina di Ares (Marte), il dio della guerra, che per millenni si è impadronito della psiche dei maschi, ma anche ad Apollo, il dio con l’arco d’argento, che all’inizio dell’Iliade scatena morte e distruzione nel campo degli Achei.
Come tutti sanno l’ira di Achille, il guerriero per eccellenza, viene cantata dall’Iliade, uno dei poemi epici fondativi della nostra cultura. “ Canta, o dea, l’ira d’Achille Pelide, rovinosa, che infiniti dolori inflisse agli Achei….” Nelle prime pagine si parla appunto dell’ira di Achille a cui Agamennone aveva tolto la schiava Briseide. Ma anche Agammenone è adirato perché per primo ha dovuto rinunciare alla sua schiava per placare la collera del dio Apollo Ed è proprio Apollo “irato nel cuore” che mette l’un contro l’altro i due eroi greci. L’ira si installa così, in Occidente, fin dall’inizio nel cuore dei maschi.
In Grecia però sulla lettura dell’Iliade e dell’Odissea si formavano i giovani maschi, che venivano così educati a riconoscere la forza delle loro passioni, condizione indispensabile per non farsene travolgere. Achille rappresenta per i Greci un modello ideale, un archetipo che rivive dentro ogni giovane maschio. E il poema insegna che cosa fare con l’ira di cui Achille è il portatore.
Achille adirato per l’ingiustizia subita da Agamennone è incerto tra due strade: “se, sfilando la daga acuta via dalla coscia, facesse alzare gli altri, ammazzasse l’Atride (Agamennone), o se calmasse l’ira e contenesse il cuore.” E mentre sfila la spada una dea inviata dal cielo, Atena, lo ferma, lo invita a rimetterla nel fodero e a non lasciarsi travolgere dall’ira: insulti pure Agamennone a parole, ma si trattenga dall’usare contro di lui la violenza. Per questo sacrificio otterrà un giorno “tre volte tanto splendidi doni”. E Achille le obbedisce. In questo gesto stanno la sua vera forza e la sua grandezza, nel sacrificio dell’ira per qualcosa di più alto e nobile. Ma Achille riesce a contenere la violenza e a trasformarla dandole un senso e una direzione, proprio perché, la conosce bene. Come guerriero figlio di un mortale e di una dea, sa che l’ira non è in suo potere, ma al contrario è lui che appartiene all’ira. E’ l’ira il soggetto dell’intero poema e come una dea va cantata e rispettata. Solo rendendole omaggio si può sperare di trasformarla, solo riconoscendone il carattere archetipico è possibile integrarla almeno in parte e metterla al servizio dell’Io. Solo riconosciuta e rispettata, prima di tutto dentro di noi, l’ira si trasforma in forza vitale, nell’energia indispensabile per affrontare la vita che, talvolta, ci chiede ancora un atteggiamento eroico.
Ben diversa è la condizione dei maschi oggi. Quasi sempre educati dalla società delle buone maniere a rinunciare alla loro forza, uomini deboli che non sono stati iniziati ai misteri della vita dal padre, spesso uomini “per bene”, non hanno un rapporto con l’ Ombra e con gli dei che la abitano. Questi uomini non reggono il dolore di una separazione, la tristezza della malattia e della vecchia, un insuccesso subito. Il loro Io troppo debole, quando diviene preda dell’ira ne è sopraffatto. Il guerriero non riconosciuto si trasforma così in assassino: l’Io ne viene sopraffatto e distrutto. La mano armata dall’Ombra conduce dritto alla tragedia. L’assassinio della donna si configura così come l’indice primo della debolezza maschile, di un rapporto troppo labile con l’istinto e con la forza tipiche dell’energia maschile. Proprio perché non riconoscono più il guerriero che è in loro, uomini per bene, apparentemente miti uccidono l’altra: nel loro gesto folle si legge l’esito estremo di una deriva del maschile che è per noi importante fermare.
Paolo Ferliga
[19 dicembre 2007]