Violenza e psiche maschile nella società liquida

Guardiamo i Tg, apriamo ogni mattina il giornale e puntualmente ci viene rovesciata addosso la cronaca dell’ennesimo episodio di “folle” violenza condito da video,

foto, particolari, interviste etc. etc. Solo negli ultimissimi giorni abbiamo letto di Sara Scazzi, del tassista massacrato per aver investito un cane senza guinzaglio, del figlio che ha ucciso il padre, del giovane che con un pugno ha ridotto in fin di vita una ragazza per un diverbio futile, del bimbo messo in lavatrice dalla madre prostituta. Potremmo continuare praticamente all’infinito, senza parlare degli episodi così detti minori, bullismi e prepotenze varie. Ogni caso, lo sappiamo bene, è diverso. Fa storia a se, e ogni responsabile di questi atti di storia ha la sua, spesso, ma non sempre, problematica. Ora, al netto dell’enfatizzazione superficiale e quasi “pornografica” di certi media che scavano in particolari raccapriccianti che nulla hanno a che fare col diritto d’informazione, al netto della superficialità degli stessi media che al massimo si limitano alla solita intervista fotocopia al solito psicologo che dice le solite banalità, non si può, però, neanche limitarsi a parlare di scoppi di follia individuale. Quando le follie sono troppe e troppo frequenti indicano che dietro c’è qualcosa di diverso; e comunque una follia che tende a diffondersi indica una malattia che va oltre i confini dell’individuo per diventare fenomeno sociale.
I Ms conducono da tempo una battaglia contro la vulgata, anche questa trasmessa dai media con messaggi spesso dissimulati, che il genere maschile sia il genere “violento” e colpevole, e che quello femminile sia la vittima innocente. Non è così e lo ripetiamo da tempo, sia perché violenza non è solo quella fisica, sia perché i dati dimostrano che il genere femminile è sempre più protagonista in negativo di violenze agite in prima persona parallelamente al crescente protagonismo delle donne sulla scena sociale, sia perché, infine, le donne risultano essere spesso le ispiratrici occulte della violenza maschile.
Tuttavia è un fatto che questi episodi vedono spessissimo come autore un maschio. Su ciò dobbiamo interrogarci senza reticenze, a partire però dalla confutazione di un’altra falsità che circola liberamente sui media, quella che la violenza sarebbe diretta in special modo contro le donne. Non è affatto vero, insomma, che i maschi odino le donne e provino verso di loro un rancore speciale dovuto al fatto che starebbero uscendo da un secolare, anzi millenario stato di sottomissione e subordinazione, conquistando la propria libertà. Prova ne sia che le vittime della violenza mortale sono in stragrande maggioranza maschi, sempre e comunque, in Italia come nel resto del mondo.
Dobbiamo interrogarci senza reticenze, dicevo. Senza dubbio le cause sociali ci sono e influiscono sul fenomeno: disagio dovuto a insicurezza, disoccupazione, povertà, mancanza di prospettive, incertezza sul proprio futuro e difficoltà a progettarlo in modo credibile non possono non gettare tutti, ma specialmente i maschi data la loro storia e, da sempre, la loro funzione sociale, in uno stato di ansia e di impotenza che si traduce in rancore indeterminato verso tutto e tutti, pronto ad esplodere alla prima insignificante occasione. Senza dubbio hanno finito per discriminare gli uomini, per come sono state concepiti o per il modo con cui sono applicati, anche tutta una serie di leggi e provvedimenti pur nati con la condivisibile intenzione di limitare la violenza contro le donne, di proteggerle in quanto parte debole per definizione in caso di diverbi e separazioni familiari, di favorirne l’ascesa sociale perchè, si dice, hanno storicamente avuto minori chances e, infine, di restituire loro il controllo e la gestione del proprio corpo (leggasi leggi abortive). Tutto ciò, però, non basta a spiegare il fenomeno, come non basta la spiegazione, anch’essa contenente una parte di verità, che “chi non fa non falla” e dunque gli uomini sono più esposti all’errore essendo i massimi costruttori di civiltà in senso materiale e immateriale.

Nella psiche maschile c’è un nucleo oscuro, violento, cui è legata la stessa nascita dell’uomo come soggetto e lo sviluppo della psiche maschile, scrive Claudio Risè (1). Lo stesso autore, ne Il maschio selvatico (2), attraverso una leggenda di Chretien de Troyes, Ivano, ci racconta dal punto di vista psicoanalitico, del doppio aspetto della sessualità maschile. Energia al tempo stesso distruttiva e creatrice, che apre al trascendente. L’atto di Ivano di versare l’acqua fecondante nella pietra cava, simbologia dell’atto sessuale, produce lo scatenamento delle forze elementari e distruttive sotto forma di tuono e grandine, ed il perfetto canto paradisiaco degli uccelli, l’armonia sottile, delicata, che esprime quella particolarmente forte sacralità della vita che si appoggia sulla distruzione, seguito però da gemiti e lamenti provenienti dal fondo della valle. Ivano, come ogni maschio, dovrà passare attraverso la conoscenza ed il confronto con la propria ombra violenta, col dolore che ne scaturisce, per elaborarla, integrarla, per, infine, non solo accedere all’amore, ma anche per mettere quella forza e quell’energia al servizio della comunità.
La leggenda di Ivano dice una cosa tanto semplice quanto dimenticata: guerra e pace, vita e morte, amore e odio, si definiscono a vicenda e non possono esistere l’uno senza l’altro, e non solo nei maschi. Non è certo un caso che le utopie sulla carta più belle si sono sempre rovesciate in tragedie immense o non hanno lasciato tracce durature nella storia dell’umanità. Per identico motivo gli appelli politicamente corretti alla pace e alla non violenza, a parte gli aspetti propagandistici, lasciano il tempo che trovano e non cambiano di una virgola la realtà del mondo. Tutte le società tradizionali o “primitive”, quelle spazzate via con l’entusiasta beneplacito del variegato mondo progressista dall’irrompere della modernità, non credevano di poter “estirpare” la violenza con le prediche moraliste o con la “rieducazione” femminista del genere “colpevole”, quello maschile. Al contrario esigevano che i giovani maschi, per accedere al rango di uomini adulti, si sottoponessero a complessi riti di iniziazione comportanti sacrifici anche cruenti, prove terrorizzanti, paura e violenza, sia pure amministrata all’interno del rito (3). Il senso del quale non era affatto quello di forzare i giovani maschi, finora vissuti nell’ombra protettiva materna, all’esercizio della violenza, ma, al contrario, di conoscerla dentro di sé, confrontarcisi, saperla amministrare ed anche usare, certamente, ma sotto il controllo della propria coscienza e della comunità, al suo servizio. Ciò che invece viene oggi richiesto al genere maschile è una pura e semplice negazione di questa energia, sotto la spada di damocle del giudizio moralistico, senza rendersi conto di due cose: che la rimozione non elimina nulla, semmai ricaccia nell’inconscio, e che così facendo si eliminano anche le potenzialità trasformatrici e creative di quella energia. (4) Il risultato sarà, anzi è, La Terra Desolata di cui ci parla T.S. Eliot, in cui non ci saranno vincitori ma tutti saremo sconfitti, anche il sogno di un mondo pacificato sotto la guida del paradigma femminil/materno (che non è in realtà affatto pacifista ma conservatore e contenente, dal punto di vista psichico, alcuni aspetti fortemente regressivi). D’altra parte il confronto con la propria ombra è esigenza di ogni società e di ogni soggetto, anche delle donne. Esse, al pari degli uomini, non ne sono affatto prive, semmai sono state esentate dal confronto con essa proprio dall’odiato patriarcato nel quale gli uomini hanno assunto su di sé l’onere dell’esercizio della violenza con tutto il carico di dolore e lacerazione, fino alla follia, che comporta. Ed è facile vedere all’opera, nella colpevolizzazione del maschio, il meccanismo della proiezione sull’altro di ciò che non si può accettare di sé. Se questo è sul piano filogenetico dello sviluppo delle culture, di tutte le culture, esiste una precisa corrispondenza anche sul piano dell’ontogenesi, il processo mediante il quale si compie lo sviluppo biologico del singolo essere vivente (dall'embrione allo stadio adulto). Secondo lo psicanalista freudiano Franco Fornari, infatti, è il maschio/padre che all’atto della nascita del bambino assume su di sé il carico di violenza, dunque di morte, anche del quale è intessuto l’ambivalente rapporto madre/figlio, con lo scopo di “bonificarlo” e permettere l’affermarsi del codice materno assolutamente necessario per la crescita equilibrata del figlio nei primi tempi della vita. E’ possibile allora intravedere dietro il crescente fenomeno degli infanticidi ad opera delle madri, proprio il venir meno di quella funzione del maschio/padre. Ma su questo tornerò fra poco.

Il maschio è, per eccellenza, il “facitore di forme”, colui che dà forma alla materia, che la struttura, potremmo dire che la “solidifica”. Uso non casualmente questo termine perché stiamo vivendo nell’epoca della “società liquida”, secondo la celebre definizione di Zigmut Bauman, secondo il quale la caratteristica principale della modernità è proprio di non possedere più una forma definita. “Una società può essere definita ‘liquido-moderna’ se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure... In una società liquido-moderna gli individui non possono concretizzare i propri risultati in beni duraturi: in un attimo, infatti, le attività si traducono in passività e le capacità in incapacità... La vita liquida è una vita precaria vissuta in condizioni di continua incertezza […]. Non puoi affidarti a qualcosa che conservi la propria forma finchè non le metti qualcosa intorno. Ricordavo prima la contraddizione interna nell'idea delle relazioni umane, e questo si collega agli attuali problemi della rete. Noi parliamo sempre meno di quella che era la miglior metafora per pensare alla società quando ero giovane: la struttura.(La vita liquida).
Se è dunque consequenziale che in una siffatta società il “facitore di forme” si ritrovi più di ogni altro privo della sua identità con tutte le conseguenze che ne conseguono in termini di caos interiore e di difficoltà/impossibilità a gestire e trasformare in senso positivo i propri impulsi libidici aggressivi, rimane da sottolineare una caratteristica fondamentale dell’individuo della società liquida dei consumi, ed il processo attraverso il quale quella caratteristica prende vita. Scrive Paolo Ferliga (5): l’immagine pregnante del carattere liquido della modernità richiama il mito di Narciso. Come Narciso, l’uomo contemporaneo è prigioniero di un’immagine liquida che non è in grado di conservare la propria forma […..] Dal punto di vista psicologico il narcisismo si presenta come l’incapacità del soggetto di investire le proprie energie nel mondo e nella relazione con gli altri. Il narcisista, dunque, è rivolto totalmente a se stesso e non riesce ad uscire, continua Ferliga, dal circolo uroborico dell’origine, il circolo che riproduce una situazione intrauterina, lo stato paradisiaco vissuto nel liquido amniotico da cui è necessario staccarsi per diventare adulti. Per crescere piscologicamente, dunque, occorre separarsi dalla madre, ma si tratta di un’impresa che [il figlio] non può compiere da solo. Nemmeno la madre può, da sola, aiutarlo, dato che anche lei è coinvolta nella simbiosi. Entra in giuoco, allora, un terzo soggetto, il padre, che imprime al figlio, come scrive Risè, la ferita del distacco. Il padre è dunque, per il pensiero psicanalitico l’antidoto principale al narcisismo e, in quanto si oppone alla soddisfazione immediata del bisogno, rappresenta simbolicamente il senso del limite. Ma – prosegue Ferliga – nella società liquida i limiti vanno aboliti, affinchè il ciclo del consumo e dello scarto possa continuare a funzionare. Per questa ragione la società diventa sempre più permissiva. Così, insieme a cose, oggetti e sentimenti, anche il padre viene scartato.

Ecco dunque delineato, dopo quello della fine dei riti iniziatici, un altro aspetto della società attuale, la liquidazione del padre. E d’altra parte anche i riti di passaggio all’età adulta di cui ho detto sopra erano una forma di paternità collettiva, sociale, esercitata dal gruppo di maschi adulti nei confronti dei giovani per staccarli dal mondo femminile/materno in cui erano vissuti da bambini ed accompagnarli nel mondo degli uomini, contrassegnato dal limite e dunque dalla norma, dall’assunzione diretta di responsabilità verso gli altri e verso la comunità d’appartenenza, dall’uso consapevole della propria forza in funzione del bene comune. Ma L’assenza del padre [...] indebolisce la costellazione dei valori che orientano la vita della comunità (6), i quali sono sempre sorretti anche da un corpo omogeneo di leggi e di norme che dai primi traggono ispirazione. Dunque, per riassumere schematizzando, la società liquida, per il suo funzionamento, esige l’abolizione del limite e della norma (permissivismo) di cui il padre è rappresentante simbolico, quindi “deve” eliminare il padre. L’eliminazione del padre impedisce l’uscita dallo stato infantile di simbiosi col materno formando così l’individuo narcisista, il quale non solo è perfettamente funzionale al ciclo insensato del consumo fine a se stesso, ma non dovendosi più confrontare con la norma paterna non ri-conosce più neanche la trasgressione perché tutto è concesso e legittimato (anche moralmente), e dunque non conosce neanche il limite. Così diviene sempre più distruttivo per sé e gli altri. Basta leggere le dichiarazioni di molti giovani che hanno compiuto azioni delittuose per rendersi conto del tasso di amoralità inconsapevole che trasuda dalle loro parole, come non si rendessero conto di aver violato contemporaneamente una norma morale e un corpo. La norma perche non ne hanno introiettato la necessità, il corpo perché l’unico che conta è il proprio mentre quelli altrui sono, al massimo, un’immagine virtuale che si può distruggere o oltraggiare senza provare alcun particolare senso di colpa.
Particolarmente interessante nel lavoro citato di Paolo Ferliga è il paragrafo in cui parla della necessità della vicinanza fisica fra padre e figli. Lo psichiatra americano James M. Herzog – scrive – dimostra nei suoi studi che l’interazione fisica dei genitori coi figli è indispensabile per evitare lo sviluppo di patologie di tipo narcisistico. In particolare suggerisce che l’odore del padre sia coinvolto nello sviluppo neuronale sotteso ad un’adeguata gestione dell’aggressività e che i figli maschi siano, forse per la loro maggiore carica aggressiva, più vulnerabili ai disturbi di tipo narcisistico in assenza del padre. La scienza viene così a confermare le conclusioni della psicanalisi e delle evidenze sociologiche. Il padre si pone, ancora una volta, al centro dell’incrocio fra individuo e società, punto di snodo fondamentale sia per la crescita individuale sia per l’equilibrio sociale.
Sorprende allora, ma è segno dei tempi, che anche nelle analisi degli studiosi sociali più avvertiti la questione paterna non sia posta in modo sufficientemente forte. Giuseppe De Rita, ad esempio, in una intervista del 13 ottobre al Corriere della Sera, scrive alcune cose del tutto condivisibili sull’esplosione di violenza di questi giorni, e per una volta non colpevolizzanti i maschi come genere: C’era la scuola che insegnava non solo le materie ma anche a vivere. C’era il padre che premiava e puniva. La madre che riprendeva la figlia troppo disinvolta. Ovviamente c’era la Chiesa che imponeva un vincolo morale di natura religiosa. Infine le autorità che provvedevano al resto. Ma alla fine degli anni Sessanta tutto è cambiato. Ormai tutti quei referenti che dovrebbero, in qualche modo, rappresentare la legge e farla rispettare, sono diventati evanescenti. ….Siamo nell’impero delle pulsioni interiori non più regolabili proprio da quelle norme che da sempre le contenevano. A livello dei rimedi possibili, l’opinione di De Rita è che “il semplice aumento della dimensione punitiva della legge non risolve il problema proprio per l’assenza di una norma etica di riferimento”.
Conclusione ineccepibile, perché senza norma etica introiettata la dimensione repressiva della legge è destinata ad aumentare in misura esponenziale fino a condurre, per evitare la pura e semplice distruzione della società, a forme di autoritarismo. Sennonchè, e qui sta la debolezza di De Rita, la norma etica ha la sua origine nel padre. Annacquando la sua importanza in mezzo a scuola, madre, Stato, si perde di vista il nucleo principale del problema e dunque della soluzione che per essere tale deve puntare sulla rivalutazione, in ogni senso, dell’archetipo paterno. Meno soprendente, ma del tutto autolesionistica, appare invece l’idea sostenuta tuttora da gran parte del femminismo, che la “liberazione dal padre” e dalle strutture sociali e psichiche imperniate sulla sua figura, sia condizione per la liberazione/emancipazione delle donne. Al contrario, senza quella “legge”, le donne, specialmente quelle più apparentemente autonome e emancipate, sono destinate a cadere/cedere nelle mani del Don Giovanni di turno, figura emblematica della ribellione al padre in nome della libertà del soggetto da norme etiche e morali, come acutamente ha notato Claudio Risè (7).

(1) C. Risè. Diventa te stesso (Demetra. 1997)
(2) C. Risè. Il maschio selvatico (Red edizioni. Como)
(3) C. Risè. Op. cit. in nota 2
(4) Il messaggio che viene inviato ai maschi è in realtà schizofrenico, perchè contemporaneamente si chiede di usarla, la violenza, in guerra come in altre circostanze. In mezzo nulla. Nessuna educazione alla conoscenza ed alla gestione di sé. Anche così si spiegano le sue esplosioni incontrollate in soggetti apparentemente innocui, i “bravi ragazzi” di cui ci parlano frequentemente le cronache. Il problema della perdita di contatto con la natura profonda, interiore ed esterna, è d’altra parte della civiltà moderna nel suo complesso. La tendenza al distacco dai processi naturali, dall’uso crescente di materiali che in natura sono sconosciuti fino alla fabbricazione artificiale della stessa vita, appare inarrestabile, senza che se ne valuti l’impatto sulla psiche individuale e collettiva. Il risultato è una sensazione “inebriante” di onnipotenza e la perdita del senso del limite, fino a pensare una umanità senza “imperfezioni”, sin dalla nascita. Il sogno eugenetico perseguita l’uomo da due secoli, ormai, ma le possibilità offerte oggi dalla tecnologia ne rendono molto più concreta la possibilità di realizzazione, ed in modo apparentemente “democratico”, per decisione individuale e non per imposizione di stato. La sostanza, però, non cambia. E’ per questo che l’immersione nella wilderness offre la possibilità di nuovo, profondo, ascolto si sé e del mondo, ed è un fattore rigenerante. Non si tratta di rifiuto della scienza o di nostalgie dell’Arcadia, tanto meno della ricerca del “buon selvaggio”. Il selvaggio non era affatto buono e le categorie morali non si addicono alla natura, che è insieme vita e morte, armonia e imperfezione, come l’uomo. Al contrario, come ho già detto, è proprio la modernità che vorrebbe scacciare ogni contraddizione in nome di una generica bontà e di un altrettanto generico bene, fin dal linguaggio edulcorato e politicamente corretto che viene usato sui media.
(5) Paolo Ferliga. Attraverso il senso di colpa (SanPaolo 2010)
(6) La figura di riferimento depositaria dei valori collettivi è, archetipicamente, il padre. Il depotenziamento del principio archetipico a lui relativo va di pari passo con l’affievolirsi dei valori in cui la collettività si identifica. (B. Meroni, Superior stabat lupus, in La pratica analitica) ; in Paolo Ferliga. Nota 18 pag. 33 op.cit.
(7) Claudio Risè. Don Giovanni l’ingannatore. Trappola mortale per donne d’ingegno (Frassinelli)