Il card. Ratzinger ed il selvatico

Brevi considerazioni a margine della lettera ai Vescovi sulla collaborazione fra uomo e donna.

Non vogliamo entrare nel merito di questioni di ordine teologico. Non ne abbiamo né la competenza né il titolo. Tuttavia la lettera del cardinale si presta ad alcune considerazioni importanti dal nostro punto di vista, a partire proprio dalla descrizione biblica della creazione del mondo.

Nel primo testo (Gn 1,1-2,4) si descrive la potenza creatrice della Parola di Dio che opera delle distinzioni nel caos primigenio. Appaiono la luce e le tenebre, il mare e la terraferma, il giorno e la notte, le erbe e gli alberi, i pesci e gli uccelli, tutti «secondo la loro specie». Nasce un mondo ordinato a partire da differenze che, d'altra parte, sono altrettante promesse di relazioni. Ecco dunque abbozzato il quadro generale nel quale si colloca la creazione dell'umanità. «Dio disse: Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza... Dio creò l'uomo a sua immagine, ad immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (Gn 1, 26-27).

Difficile negare l’affinità di questa descrizione col processo di differenziazione della coscienza umana che a poco a poco emerge dall’indistinzione originaria, dal caos primigenio che tutto contiene in sé e che Erich Neumann individua raffigurato simbolicamente nell’uroboro, il serpente che ingoia sé stesso. Se l’atto creatore di Dio da forma alla materia e pone un ordine laddove esisteva il caos, allo stesso modo l’emergere della coscienza permette all’uomo di conoscere il mondo e riconoscersi come parte della natura ma distinto da essa. Creazione e coscienza, dunque, implicano entrambi separazione, divisione, differenziazione.
La coscienza, ancorché presente in ogni individuo umano, è tuttavia simbolicamente maschile, allo stesso modo in cui l’inconscio, di cui tutti siamo “dotati”, è tuttavia simbolicamente femminile. Da un certo punto di vista si potrebbe dire che la questione della paternità di Dio e della maschilità del Figlio stia racchiusa tutta qui, e non certo in un disegno oppressivo di stampo patriarcale.

Da ciò, per il selvatico, non scaturisce affatto una supremazia del maschile sul femminile, per la semplice ragione che la realizzazione del sé implica l’integrazione in ogni essere umano dell’io coscienziale e dell’inconscio, così come dello spirito e del corpo, altra antinomia che simbolicamente rappresenta la differenza fra principio maschile e femminile. Se il corpo in quanto materia può esistere indipendentemente dallo spirito, senza quest’ultimo non si avrà essere umano. E viceversa, lo spirito che illude sé stesso di disancorarsi dal corpo, dalla materia in cui si incarna e di cui si nutre, è destinato a produrre “mostri”, come rileva anche il cardinal Ratzinger.
Il selvatico è un maschio eretto, che guarda in alto, al cielo luminoso dello spirito ma che ha i piedi ben piantati nella terra, ben sapendo che da essa viene e che se da essa si distaccherà troppo sarà destinato a cadere rovinosamente, come accadde a Icaro.
Maschi e femmine sono dunque “condannati”, diciamo meglio votati, a coesistere e completarsi vicendevolmente, a partire dal riconoscimento della propria parzialità inscritta nella diversità dei corpi. Parzialità che, in quanto inscritta nel corpo, non può essere addebitata a fattori culturali né annullata da forzose omologazioni, ma superata e trascesa solo nella relazione con l’altro/a, e nel riconoscimento reciproco delle rispettive peculiarità.
La lettera del cardinale parla di un mondo ordinato da differenze come altrettante promesse di relazione. Si potrebbe aggiungere necessità di relazione e di dono reciproco.
Il disconoscimento delle differenze simboliche e concrete fra maschile e femminile, lungi dal favorire una reale parità, ci riporta ad uno stato regressivo, di indistinzione, e nello stesso tempo stimola il senso d’onnipotenza. E’ questo che fa teorizzare l’indifferenza del ruolo materno e paterno, o peggio rivendicare la capacità di essere madre e padre contemporaneamente come una conquista di autonomia, e non come una dolorosa necessità imposta, a volte, dalla vita, trascurando o minimizzando volutamente i dati concreti che mostrano i guasti psichici e i costi sociali enormi di queste situazioni.
E’ questo che fa pensare come auspicabile la fabbricazione artificiale della vita e la sua manipolazione. Lo stesso senso di onnipotenza che, in ultima analisi, induce a pensare la natura come un “accidente” , o al massimo come un “passaggio” della storia e dell’evoluzione biologica e non come lo scenario ed il contenitore in cui si svolge la vicenda umana e che merita profondo rispetto e salvaguardia.
I maschiselvatici pensano che queste conclusioni siano necessariamente inscritte in una concezione dell’uomo e del mondo che guarda al sacro e che non considera la vita soltanto come un insieme di cellule.
Ma non sono solo questi gli effetti indotti dal non riconoscimento della diversità strutturale.
L’omologazione forzata, in quanto contro natura, si rivela impossibile e non solo favorisce la competizione anziché la cooperazione, ed anche questo è ben colto nella lettera, ma soprattutto spinge necessariamente verso la “pretesa” di ricondurre l’uno all’altro. Non è per caso, né lo diciamo solo noi, che stiamo andando verso una società senza padre; nella quale, dunque, prevale l’archetipo della Madre. Stiamo parlando, naturalmente, di aspetti psichici e simbolici, ben piu’ importanti di quelli sociologici per individuare le tendenze profonde della società.
Il tema del femminismo della differenza va inquadrato in questo contesto, e non possiamo non rilevare che, partito dalla legittima ed anzi sana rivendicazione di uno specifico femminile, sia finito in gran parte per considerarsi come moralmente ed eticamente superiore al maschile, al quale quindi si finisce per chiedere semplicemente di adeguarsi rinnegando sé stesso.
Il selvatico, al contrario, nel rivendicare un “sapere” maschile che fluisce dall’istinto educato dalla coscienza e sedimentato nel tempo, riconosce altrettanto legittimo l’altro da sé, né inferiore né superiore, ma semplicemente diverso.
Non si tratta allora di negare all’universo femminile la partecipazione alla vita sociale, o di pensare a leggi limitative della libertà delle donne che non siano semplicemente quelle, valide per tutti, che riconoscano l’esistenza di diritti intangibili come quello alla vita.
Si tratta invece di riconoscere che la funzione e la assidua presenza fisica materna nei primi anni di vita del bambino è insostituibile, come per altri aspetti lo è quella paterna nel seguito della crescita psicologica del figlio. Nessun apparato, statale o privato che sia, può insomma surrogare i genitori. Dal che discende una conseguenza importante. Posto che ognuno, uomo o donna che sia, deve essere libero di scegliere, deve anche valutarne le conseguenze. Scegliere significa delimitare, separare. Scegliere la maternità significa allora sia la consapevolezza della necessità del padre, sia la rinunzia, almeno temporanea, a carriere professionali che richiedono impegno di tempo e di energie che non è giusto siano sottratte al figlio. Chi sceglie la professione come fine primario, invece, dovrebbe consapevolmente rinunciare alla maternità, assumendosi le possibili conseguenze in termini di mancata realizzazione di una vocazione tipicamente femminile. Cercare di tenere insieme tutto produce stress e tensioni di cui fa le spese per primo il bambino, ed è un altro sintomo di onnipotenza.
Non è, questa, una costrizione biologica, a meno di considerare la natura come un limite. Al contrario, sembra anche a noi che offra alla donna un ventaglio di scelte, tutte pienamente legittime, che l’uomo non ha ma di cui, proprio in seguito al ragionamento precedente, non ha ragione di lamentarsi.

A.Ermini