Uccidere un neonato non è reato? Proposta scandalo, eppure...

Francesca Minerva e Alberto Giubilini, ricercatori universitari e consiglieri della “Consulta di bioetica”, onlus gravitante in area radicale, hanno di recente pubblicato sul prestigioso Journal of Medical Ethics,

un articolo choc in cui, in sintonia con le tesi del premio Nobel Peter Singer, sostengono che esistono buone ragioni per consentire l’infanticidio, altrimenti definito “aborto post-natale”. Prevedibile lo scandalo suscitato dalla proposta, eppure……eppure quelle tesi non mancano di una loro ferrea logica, ovviamente date certe premesse, e molti commenti scandalizzati mostrano tutta la loro debolezza proprio perché non contestano i presupposti su cui i due bioeticisti si basano.

Vediamoli. "Se i criteri come i costi (sociali, psicologici, economici) per i potenziali genitori sono buone ragioni per avere un aborto anche quando il feto e' sano, se lo status morale del neonato e' la stessa di quella del bambino e se non ha alcun valore morale il fatto di essere una persona potenziale, le stesse ragioni che giustificano l'aborto dovrebbero anche giustificare l'uccisione della persona potenziale quando e' allo stadio di un neonato". Ineccepibile.

A parte la dissimulazione linguistica che attribuisce ad entrambi i genitori potenziali la facoltà di abortire quando è noto che la legge investe solo la madre di tale facoltà, per il resto: 1) è vero che al feto non viene riconosciuto dalle leggi abortive lo status di persona ma solo di persona potenziale e quindi la sua soppressione è moralmente irrilevante, tanto che dopo abortito viene considerato e trattato come “rifiuto organico speciale”. 2) è vero che il neonato, al pari del feto ma anche dei dementi gravi, non è dotato di autocoscienza attiva, e quindi non può essere portatore di alcun “interesse”, rispetto al quale prevale quello delle persone coinvolte con loro (leggasi la madre). 3) Conseguentemente, a dispetto delle proclamate buone intenzioni e della lettera della legge 194, è vero che l’aborto è di fatto consentito qualsiasi sia il motivo, ovvero che non esiste alcun criterio al di fuori della decisione materna. 4) E’ vero che il termine di nove o otto o dieci settimane dal concepimento dopo il quale l’aborto non è più consentito (solo teoricamente), è una pura convenzione legale priva di ogni base scientifica, tanto che in alcuni paesi è già possibile abortire fino all’ultimo giorno.

 

La conseguenza necessaria di tale impostazione culturale comunemente accettata per giustificare l’aborto, e nettamente prevalente nell’applicazione delle leggi abortive, è che non esiste alcun motivo logico, scientificamente e moralmente rilevante, per impedire la soppressione del neonato. Ma fino a quando sarebbe “eticamente lecito” uccidere i bambini? Giubilini e Minerva non si arrovellano molto intorno al problema. Precisano solo che, secondo loro "ci vogliono almeno un paio di settimane perche' il bambino diventi auto-cosciente. A quel punto da persona potenziale diventa una persona, e l'infanticidio non e' piu' consentito".

Insomma, anche in questo caso si stabilisce un limite convenzionale ( e in quanto tale sempre rivedibile), e si può procedere. Questo è quanto.

Ora a noi appare evidente la debolezza strutturale e la contraddittorietà delle argomentazioni di quei commentatori che, d’accordo sul diritto di aborto, esprimono invece scandalo e contrarietà a questa proposta. Prendiamo come esempio per tutti ciò che scrive Rita Guma su Il Fatto quotidiano del 1 marzo. Dapprima si richiama al fatto ovvio che per la legge il neonato, a differenza del feto, è un soggetto giuridico, come se non fosse proprio questo che i due ricercatori puntano a modificare. Poi, consapevole della debolezza dell’argomento prosegue “ C’è poi un’altra distinzione essenziale fra prima e dopo la nascita: nel primo caso ogni scelta riguardante il feto riguarda anche la madre, quindi la prosecuzione di una gravidanza ai fini, ad esempio, dell’adozione, richiede alla donna un coinvolgimento fino alla nascita del bambino. E’ molto diverso, invece, se il bimbo è già nato, essendo un essere a se stante, la cui sorte non coinvolge quella dei genitori, se costoro non vogliono

Secondo la giornalista, dunque, qualche mese di vita della madre vale di più della vita stessa del bambino che non considera un “essere a se stante” ma una semplice appendice di cui potersi sbarazzare a piacimento. Come se il feto non avesse propri organi, come se non fosse già in grado di recepire, è ormai appurato, gli stimoli che gli vengono dall’esterno! Ma, si dice, dipende dalla madre per la sua sopravvivenza. Come se anche un neonato abbandonato a se stesso non morisse in poche ore! Infine, per tentare disperatamente di tenere ben diviso l’aborto dall’infanticidio, se ne esce con l’argomento che quella proposta banalizzerebbe la decisione di abortire, vista solo come questione di opportunità. Che l’aborto sia un lutto difficilmente elaborabile è senz’altro vero, ma che molte donne non se ne rendano conto e lo pratichino con facilità e per a volte futili motivi lo è altrettanto, purtroppo.

La verità è che i ragionamenti della giornalista non tengono di fronte alla logica consequenziale dei due ricercatori, e non tengono perché non può criticarne i presupposti pena la messa in discussione della conquista “civile” del diritto di abortire. Non si scappa. Fra feto e neonato, come sostengono Minerva e Giubilini , non esiste soluzione di continuità e la differenza è in sostanza solo una finzione giuridica come tale modificabile in funzione della cangiante sensibilità sociale. Quindi, se l'infanticidio (di neonato) nulla ha di diverso dall'aborto, allo stesso modo l'aborto non è altro che un vero e proprio infanticidio. L’impossibilità di toccare il tabù aborto, fa cadere la giornalista de Il Fatto in un’altra contraddizione, quando alla fine dell’articolo nota “che la mancata consapevolezza che ha un neonato è confrontabile con quella di una persona malata o anziana non in grado di comprendere, riconoscere e autogestirsi. Operando in modo estensivo come hanno fatto i due ricercatori, allora, potremmo eliminare tutti i disabili gravi, i malati di Alzheimer in stato avanzato, etc. Non era necessario tanto studio per arrivare a tali conclusioni aberranti: le teorie eugenetiche furono applicate tristemente dagli americani prima ancora che Hitler le elevasse ad arma di sterminio. “ Verissimo, naturalmente, ma da questo punto di vista neanche un feto di alcuni mesi è in grado di comprendere, riconoscere e autogestirsi. Dov’è allora la differenza etica fra aborto e infanticidio?

C’è in realtà un filo rosso di continuità fra diritto insindacabile all’aborto, infanticido e eugenismo, e proprio il fatto che le pratiche eugenetiche fossero teorizzate e in uso da ben prima del nazismo in paesi sviluppati e culla dei “diritti civili” (più ancora che gli Usa si distinsero le civilissime, laicissime e progressiste Svezia e Danimarca), dovrebbe far riflettere. Il nazismo non ha inventato nulla, ha solo importato e praticato su scala scientifica e “industriale” alcune teorie nate in ambienti laici e illuminati. E’ a queste che infatti si riallaccia il nuovo eugenismo come quello della Danimarca, che si propone di raggiungere, entro il 2030, l’invidiabile primato di unico Paese al mondo «Down Syndrome Free», naturalmente tramite eliminazione a mezzo aborto di ogni feto malformato.

Sembra rimaterializzarsi il sogno dell’uomo perfetto come nel nazismo e nel comunismo. Questa volta in vesti democratiche e progressiste, anticipatore di un totalitarismo dissimulato, soft, inconsapevole alla coscienza di molti, e per questo, se possibile, ancora più spaventoso e pericoloso dei totalitarismi novecenteschi, in ogni caso loro diretto erede sul piano antropologico e culturale.

Per concludere, è istruttivo andare a vedere come hanno reagito i due ricercatori alle critiche piovute loro addosso. Minerva e Giubilini hanno scritto una “lettera aperta” in cui leggiamo: “si supponeva che l’articolo dovesse essere letto da altri bioetici che erano già a conoscenza dell’argomento e delle nostre convinzioni. […] Si trattava di un puro esercizio logico: se X, allora Y. Ci aspettavamo che altri bioetici avrebbero messo in discussione la premessa o il ragionamento logico che abbiamo seguito “. Ed ancora: “nessuno dovrebbe subire simili violenze per aver scritto una ricerca scientifica su un tema controverso. […] Ci scusiamo per le offese che il nostro studio può aver causato, e auspichiamo che questa lettera aiuti a capire la distinzione essenziale tra linguaggio accademico e la presentazione fuorviante data dai media, e tra ciò che può essere discusso in un paper scientifico e ciò che potrebbe essere legalmente permissibile”

Due sono le cose da notare. La prima è una tecnica di comunicazione già sperimentata, come scrissero nel 2006 Jacques Testart e Christian Godin in La vita in vendita” (Lindau, Torino 2004). Si inzia a parlare pubblicamente di un argomento in termini “scientifici” avanzando ipotesi esplosive, poi si fa una parziale marcia indietro. L’intento non è certo quello di arrivare immediatamente allo scopo, ma solo di aprire la strada. Fare in modo cioè che il tema “controverso” diventi “normale” oggetto di discussione, prima fra gli scienziati e poi fra le persone comuni le quali inizieranno ad abituarsi all’idea che l’argomento è ormai sul tappeto ed assuefarsi ad una possibile futura sua regolamentazione legislativa. In tal modo lo scopo è già ottenuto. Ciò che in un primo tempo l’opinione pubblica tende a rigettare con sgomento, diventa pian piano una possibilità come le altre, magari da raggiungere per tappe successive. Rotto il tabù psicologico, la strada diventa in discesa. E’ solo questione di tempo e di pazienza.

L’altra cosa assai istruttiva è l’affermazione che quell’articolo era rivolto alla comunità scientifica, come se la scienza fosse esentata dal confrontarsi con l’etica e la morale, uno spazio franco in cui poter dire e sperimentare qualsiasi cosa. Come se dovesse essere considerato ammissibile e “normale” un confronto in un paper scientifico sul modo migliore di eliminare dal mondo ogni soggetto che la scienza considera, in base a suoi criteri arbitrari, una “non persona”. Probabilmente questo accadeva fra gli scienziati nazisti, probabilmente Mengele interpretava proprio in questo modo il suo ruolo. Gli scienziati, i tecnici, sarebbero i novelli demiurghi dell’uomo nuovo, i superuomini ai quali non sono applicabili i concetti e le regole validi per gli altri, i non iniziati alla conoscenza. E’ riconoscibile l’origine gnostica di questa concezione che in nome della conoscenza rifiuta in linea di principio ogni limite etico e in particolare, nel folle sogno di costruire il paradiso terrestre senza Dio, ogni differenza come costitutiva dell’umano. E di conseguenza vede nell’umanesimo cristiano l’ostacolo da abbattere, il principale nemico. Non è questa la sede per approfondire l’argomento, tuttavia occorre accennarne perché quelle concezioni non sono residuali o ininfluenti. Possono contare su poteri immensi, economici, politici e culturali, con capacità di convincimento enorme e con enorme capacità di dissimularsi sotto le mentite spoglie della libertà individuale assoluta elevata a feticcio.