Il mio orecchio sul suo cuore

orecchio

 

Hanif Kureishi
Il mio orecchio sul suo cuore
Milano, Bompiani, 2004


A cura di Monica Blondi

Il più bel regalo che un padre possa fare a suo figlio è quello di aiutarlo nella scoperta del proprio talento. Può capitare poi che il figlio cerchi un modo per sdebitarsi. Così, quella che doveva essere una raccolta di riflessioni sulla letteratura, sul come e perché si legge, si trasforma in un omaggio al padre, aspirante scrittore mai pubblicato. Il ritrovamento di un manoscritto redatto dall’uomo undici anni prima della sua morte offre ad Hanif Kureishi, scrittore anglo-pakistano nato a Londra nel 1954, l’occasione per riflettere sulla figura di suo padre e ricostruirne il ritratto proprio grazie a questa “eredità di parole”. Un’adolescenza indiana è il titolo del romanzo autobiografico in cui l’uomo, attraverso il suo alter ego Shani, racconta la sua vita in India durante il colonialismo, in particolare i difficili rapporti con il padre, il colonnello Murad, medico dell’esercito rigido e autoritario, e la competizione con il fratello Omar, giornalista e speaker radiofonico molto popolare in Pakistan. I libri erano sempre stati al centro della sua vita. Quando si ritrovavano, lui e i suoi numerosi fratelli amavano discutere animatamente di letteratura e politica e “la tensione intellettuale tra loro era sempre alta, quasi omicida”. Credevano ciecamente nell’istruzione e nella cultura come strumento di promozione sociale.

L’autore affronta la lettura del manoscritto come se questo nascondesse una sorta di messaggio per lui (“mio padre mi sta parlando di nuovo, e non solo dentro la mia testa”). Si sente scioccato, commosso e disturbato. Teme di scoprire un’immagine del padre diversa da quella che si era costruito negli anni (“ci sono delle conoscenze su cui preferisci andare cauto, informazioni sui tuoi genitori che non sei sicuro di voler ricevere”). Questo lavoro sul padre diviene anche un modo per conoscere se stesso: “Per me questa è diventata una vera ricerca, per scoprire il mio posto nella storia e nella fantasia di mio padre, e le ragioni per le quali mio padre ha vissuto una vita a metà”. (p.40) Scarsamente portato per il cricket, a cui il padre aveva tentato inutilmente di avviarlo, l’autore rivela che, proprio grazie ai libri, aveva scoperto qualcosa che entrambi avevano in comune: la passione per la scrittura e la letteratura, in particolare per Cechov.

La lettura del manoscritto viene integrata dai due volumi autobiografici di Omar e da un altro manoscritto del padre, rinvenuto nel frattempo, intitolato Il licenziato. Inizia così un gioco di specchi tra questi scritti, ripresi in intertesto, e i romanzi pubblicati dall’autore stesso, il tutto organizzato secondo la tecnica del collage. Fin da subito emerge la forte rivalità del padre nei confronti di Omar, di cui subisce il fascino e il talento, la quale non di rado sfocia in vera e propria invidia verso il fratello prediletto. Ma è soprattutto la paura del padre a trapelare dalle pagine del manoscritto, e la sensazione di essere indesiderato, superfluo. Suo padre aveva scritto un romanzo in cui lui era il protagonista, la figura centrale, forse perché in famiglia si era sempre sentito emarginato, non voluto. Così, una volta lasciata l’India, si era ritirato nella periferia di Londra: “In Inghilterra mio padre creò la sua famiglia, il suo impero personale. A casa poteva essere il padre che avrebbe voluto avere – coinvolto, attento, una vera guida – invece della lontana figura che descrive essere stata il colonnello Murad”. (p. 54). Qui si era adattato a fare un lavoro noioso presso l’ambasciata indiana, “di basso profilo con un magro stipendio”, che lo faceva sentire incastrato. Cercava di insegnare l’amore per lo sport ai ragazzi del quartiere, organizzando partite di cricket e incoraggiandoli: “Le paure edipiche e i terrori che descrive nel suo romanzo erano svaniti, come Freud sostiene accada inevitabilmente, nella sua vita di adulto; o forse aveva trovato un modo di vivere in cui queste paure non lo disturbavano”. (p. 100) La scrittura era stata il suo personale modo di reagire alla ferita paterna e superare la sensazione di sconfitta e inferiorità che lo aveva accompagnato per tutta la vita: ”Mio padre si era sentito inutile per lungo tempo, e la sua risposta era stata quella di creare uno scopo, modellarsi a un genitore interiore che gli dava ordini”. (pp. 120-121). Ma scrivere era anche un modo per tenere “almeno viva qualche forma di espressione”. Attraverso la letteratura, mettendo in scena personaggi di immigrati che si riscattano, aveva trovato il suo personale successo, e nonostante i rifiuti degli editori aveva continuato a scrivere tutta la vita, romanzi e racconti, “solo contro tutti”. Ad ogni rifiuto subentrava la disperazione per poi riprendersi subito dopo e riscrivere il romanzo o lavorare su una nuova idea. Ammise di voler continuare a provare a diventare uno scrittore affinché suo figlio non lo vedesse sconfitto. Aveva poi spinto quest’ultimo sulla stessa strada, incoraggiandolo a rimanere nella sua camera ad esercitarsi con la macchina da scrivere. Tanto che a quattordici anni il figlio scrive il suo primo romanzo: “La scrittura era il suo spazio, era il desiderio in cui viveva immerso, ma introducendomi a essa, mostrandomi la soddisfazione che poteva nascere dallo sviluppare un compito, aveva innalzato il mio spirito e mi aveva indicato una via d’uscita”. (p. 146)

Forse non è un caso che delle riflessioni sulla letteratura abbiano condotto a questo omaggio al padre, che è anche un vero e proprio atto d’amore: per Roland Barthes, la figura del padre è il motore di ogni narrazione. Qui le aspirazioni letterarie del genitore vengono proiettate sul figlio e da quest’ultimo concretizzate. La figura paterna si pone così all’origine del progetto di scrittura, e l’atto dello scrivere crea un legame tra padre e figlio che va al di là della morte. Infatti l’autore si definisce l’editor di suo padre ed è come se i due stessero lavorando insieme allo stesso romanzo. Egli ricompensa il padre per aver fatto di lui uno scrittore di successo e lo fa ospitandone le parole all’interno del suo libro. Parole che si sono arricchite di un significato nuovo perché filtrate, reinterpretate dal figlio: “le sue storie sono state lette, meditate, vissute, sono diventate oggetto di conversazione”. In questo modo ha la sensazione di aver saldato un debito: “Dalla scrittura di mio padre, dall’energia del suo ferreo impegno, ho trovato le mie storie da raccontare. […] Forse facendo questo, gli ho restituito qualcosa”. (p. 235)

Infine, l’autore riflette su come le vicende narrate in questo gioco di specchi non siano altro che storie di uomini, anzi di generazioni di uomini: a partire dal colonnello Murad, da suo padre e dai suoi fratelli, fino ad arrivare a lui e ai suoi tre figli. Generazioni di uomini che incarnano modi diversi di essere padri: l’autoritarismo del nonno, il modello anni sessanta espresso da suo padre - amico e complice del figlio - fino all’autore stesso che ammette di non sapere esattamente cosa significhi essere un padre e di sentirsi ancora perso, disorientato, quando non è nella sua stanza a scrivere: “Fuori di qui, non ci sono mappe da seguire. Mio padre ha fatto tutte le mappe, appartengono a lui, e le ha portate con sé quando se ne è andato. Oltre questo c’è il caos, l’ignoto, e questo è il solo posto dove andare, il solo su cui fare rotta”. (p. 235)