L'uomo maschio
di Eric Zemmour
Piemme 2007
“Non ci sono più gli uomini di una volta”.
E’ una frase che inizia a fare capolino nei talk-show e nei programmi di intrattenimento, e , inopinatamente, viene pronunciata spesso proprio da quelle donne che hanno fatto di tutto affinché l’antico maschio “predatore” sparisse per sempre. Come quella famosa conduttrice di Rai Tre, icona perfetta del femminismo progressista, che recentemente ha espresso nostalgia per il capobranco, e proprio di fronte al comico prototipo dell’uomo nuovo, autoironico e politicamente correttissimo.
Le righe finali del pamphlet di Eric Zemmour, diventano allora non solo la descrizione di un esito che vent’anni orsono, quando viva era la fede nelle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità nuova che stava nascendo sulle rovine del “patriarcato”, solo in pochissimi avevano previsto, ma anche un’esortazione tanto pressante quanto pessimista al maschio affinché risorga dalle sue ceneri.
Le loro difficoltà [delle donne. Ndr] di reggenti di una società senza re sono troppo grandi; la femminizzazione dell’uomo provoca un immenso smarrimento, una frustrazione insopportabile per lei e una disgrazia intollerabile per i figli. […….]
È come se, inconsciamente sconvolte dalla rapida femminizzazione dei loro uomini, tentassero una retromarcia disperata.
Penso ..che la più grande resistenza verrà dall’uomo, ben felice di essersi finalmente sbarazzato dal fardello che aveva fra le gambe.
C’è stata, è la tesi centrale del libro, una saldatura d’interessi fra moderno capitalismo postindustriale e femminismo. Il primo, nell’ambito della nuova divisione internazionale del lavoro, aveva bisogno di un uomo senza radici né razza, senza frontiere né paesi, senza sesso né identità, figura di consumatore opposta a quella sobria e noiosa sia dell’antico “macho” sia della famiglia tradizionale. Il secondo voleva trasformare la società fondata sulla legge del padre ed abbattere l’autorità maschile per imporre nuovi canoni culturali che, si pensava, avrebbero finalmente liberato le donne. L’operazione è riuscita, ma solo a metà. Il maschio tradizionale non esiste più, rifiuta culturalmente il trinomio fallo, soldi, potere e tutte le caratteristiche secolari del suo genere (aggressività, intraprendenza, competizione, innovazione) in favore di quelle femminili (empatia, accoglienza, conservazione). Insieme ad esse, però, rifiuta ormai anche la faticosa assunzione di responsabilità che vi era connessa, mentre sono saltate (o vengono demonizzate) quelle strutture sociali e culturali nell’ambito delle quali il potere maschile veniva bensì esercitato ma, prendendo realisticamente atto dell’irriducibile diversità biologica e psichica fra i sessi, quelle caratteristiche venivano anche incanalate a messe al servizio della comunità. Il risultato è un senso di smarrimento e di impotenza che alternativamente sfocia o in una resa incondizionata o in un istinto di rivalsa violenta e cieca, in quell’eccedenza di maschilità che, ad esempio, sono state per Zemmour le rivolte delle bainlieu parigine, non casualmente provocate da giovani maschi di origine extra-europea assurti a simbolo di una maschilità in pericolo di estinzione.
Dal lato femminile le cose non vanno meglio. Apparentemente vittoriose su tutti i piani, le donne si stanno però lentamente accorgendo che le stanze del potere, anche quello politico a cui hanno avuto accesso, sono ormai vuote, essendosi questo dislocato altrove, nell’alta finanza ad esempio, saldamente in mano a pochissimi uomini. Il lavoro femminile su cui poggiavano le istanze di emancipazione, poi, è stato usato non già per liberare le donne dalla dipendenza economica, ma per abbassare anche i salari maschili, secondo il concetto marxiano dell’esercito industriale di riserva. Soprattutto però si stanno accorgendo che è sparito il maschio al loro fianco, e che “forse” proprio quei lati maschili che tanto si sono adoperate a combattere sono quelli di cui anch’esse e i loro figli necessitano e che, in definitiva le attirano anche.
Se questa è la spietata diagnosi, Zemmour non propone una prognosi precisa, e c’è da capire la sua difficoltà. Rotto il delicato equilibrio [….] tra virilità dominante e femminilità influente per l’abdicazione dell’uomo bianco, destrutturata la famiglia e sparito il padre, la ricostruzione di figure maschili e femminili che sappiano riconoscersi a vicenda non può non essere lenta e faticosa. C’è però un passaggio interessante alla fine del libro, quando esprime la convinzione che, nonostante tutto, le resistenze delle donne [al ritorno del maschile] non sarebbero poi così forti.
La condizione necessaria e non scontata, naturalmente, è che il maschio abbia voglia di riproporsi come tale. Ma su questo mi sento di esprimere una speranza. Gli uomini, anche per amore delle donne, hanno fondato città, fatto guerre, creato opere d’arte sublimi, tentato la scalata al cielo. E forse saranno capaci di riproporsi, si spera con maggior consapevolezza.
[12 marzo 2007]