L’oblio che saremo

oblio

 

 di Héctor Abad

Einaudi Editore, 2009, pp. 263 

“Il miglior metodo per educare è la felicità”, secondo la teoria educativa di Héctor Abad Gómes, medico e professore colombiano ucciso nel 1987 a Medellín dagli Squadroni della Morte, nonché padre di Héctor Abad Faciolince, giornalista e autore di questo commovente romanzo familiare. L’oblio che saremo, il cui titolo proviene da una poesia di Borges ritrovata in tasca all’uomo il giorno della sua morte, è soprattutto una dichiarazione d’amore di un figlio per il proprio padre: “Un giorno dovetti scegliere tra Dio e mio padre e scelsi mio padre. Fu la prima discussione teologica della mia vita” (p. 3). È quanto afferma l’autore nel primo capitolo intitolato “Un bambino per mano a suo padre”, in cui racconta della sua infanzia trascorsa in una casa piena di donne: la madre e le cinque sorelle, che lui chiama “le mie sei madri”, oltre a una vecchia balia e una suora “di compagnia”. Ciò che lo lega al padre è un “amore animale” che si manifesta in modo fisico attraverso frequenti baci, abbracci, risate. Del padre ama le mani, la voce, l’odore: “Io sentivo per mio papà quello che i miei amici dicevano di sentire per la mamma” (p. 5). Bastava questo per suscitare imbarazzo tra parenti e amici in una società machista come quella colombiana in cui “un saluto tra maschi, padre e figlio, doveva essere distante, brusco e senza affetto apparente”.
Il ritratto del padre che emerge è quello di un uomo generoso con la passione per la letteratura e la musica classica. Da sempre attento ai problemi della società colombiana, fin da quando era un giovane studente universitario aspirava a portare avanti progetti di medicina sociale più che ad arricchirsi aprendo cliniche per gente abbiente come avrebbero fatto molti suoi colleghi. Nei suoi articoli denunciò la mancanza di acqua potabile, causa del diffondersi di malattie nei quartieri poveri di Medellín, spingendo le autorità a costruire un acquedotto. Una volta divenuto medico e professore, organizzò campagne di vaccinazione per i bambini, spiegando alla gente l’importanza del rispetto delle norme igieniche di base, esortando i poveri a reagire per migliorare la loro situazione e ottenere il rispetto dei loro diritti. Ben presto venne accusato di idee comuniste e di voler fomentare il popolo alla rivolta. L’ambiente universitario cominciò a perseguitarlo: gli vennero tolti incarichi importanti e venne spinto ad accettare lavori all’estero, soprattutto in Oriente. È durante questi viaggi che il figlio, per attenuare il dolore della mancanza del padre, chiedeva alle domestiche di non cambiare la biancheria del letto in modo da poterne aspirarne l’odore, che per lui era “il segno della protezione e della tranquillità”.
All’età di sessant’anni Héctor Abad viene costretto ad andare in pensione. Ciò gli permette di dedicarsi con passione alla difesa dei diritti umani, prendendosi a cuore la situazione dei desaparecidos e delle loro famiglie. A metà degli anni ottanta, infatti, in Colombia si assiste all’inasprimento della violenza, soprattutto politica. Lo Stato, attraverso l’Esercito, si appoggiava a gruppi paramilitari per ridurre al silenzio veri o presunti oppositori del governo, adducendo la scusa di voler salvare il paese dalla minaccia del comunismo. L’attivismo del padre nel campo dei diritti umani si accentua dopo la morte della figlia Marta, scomparsa a quindici anni a causa di un melanoma. Organizza marce e scioperi di protesta; scrive articoli in cui denuncia torture, sequestri e omicidi, rendendo pubblici i nomi e cognomi degli aguzzini. Fino a quel triste giorno di agosto del 1987, in cui viene freddato in strada per mano di due sicari. Una morte, quella di Héctor Abad, che assomiglia in tutto e per tutto a un martirio. Egli aspirava a una società più giusta, dove tutti meritano pari opportunità, perché solo così si eliminano le disuguaglianze sociali e quindi la violenza.
Lungi dal volerne fare l’agiografia, l’autore critica il padre definendolo troppo ingenuo. La sua vanità lo aveva indotto ad esporsi in maniera pericolosa, spingendolo verso un fanatismo giustizialista.
La figura del padre è profondamente legata alla scrittura: è nell’ufficio del padre che, ancora bambino, Héctor Abad inizia a scrivere, componendo con la macchina da scrivere lettere indirizzate al genitore nell’attesa che finisse le sue lezioni all’università. Scritti che rendono suo padre molto fiero, “come fossero epistole di Seneca”.
Non mancano riflessioni sul pericolo di un amore paterno così eccessivo: “Un padre tanto perfetto può arrivare a essere insopportabile. Anche se approva tutto quello che fai (perché tutto quello che fai gli piace), arriva il momento in cui per un confuso e demente processo mentale, vorresti che quel dio ideale non fosse sempre lì a dirti che va tutto bene, a dirti sempre di sì, sempre fa’ come vuoi. È come se, alla fine dell’adolescenza, non si avesse più bisogno di un alleato, ma di un antagonista” (p. 184). Il protagonista racconta di essere riuscito a sottrarsi alla tutela psicologica del padre solo allontanandosene fisicamente, andando a vivere in Italia con la sua prima moglie.
Tuttavia, proprio grazie al suo esempio comprende che il segreto della felicità è sentirsi amati per ciò che si è, a prescindere dal denaro accumulato - solo un mezzo che ci permette di conservare e difendere la nostra “indipendenza mentale” senza asservirci ad altri per necessità - o dalla carriera intrapresa. Perché se nessuno, neppure i genitori, possono rendere felici i propri figli, è certo che li possono rendere molto infelici: “Senza l’amore esagerato che mi diede mio padre, io sarei stato molto meno felice” (p. 16).

(Monica Blondi)

[04 dicembre 2009]