TEATRO - Il padre

di August Strindberg
regia di Massimo Castri
con Umberto Orsini e Manuela Mandracchia

a cura di Antonello Vanni

Massimo scrittore e drammaturgo scandinavo insieme a Ibsen, Strindberg muore nel 1912, mentre Freud elabora le basi teoriche della psicanalisi e il mondo corre verso la guerra, la prima grande carneficina del XX secolo che falcidia un numero immenso di uomini.
Anche Il padre, come ogni opera, offre più di un piano di lettura: l’impossibilità di rapporti sani all’interno della famiglia borghese, il potere manipolatorio e la “falsa coscienza” femminili che hanno fatto gridare alla misoginia dell’autore, la fascinazione che esercita nell’uomo adulto la regressione allo stato infantile (di beatitudine ma anche di dipendenza), la difficoltà di rapportarsi con un mondo femminile che si pensa autosufficiente. C’è tutto questo nel dramma di Strindberg, che racconta il devastante percorso di un uomo verso la follia e la resa, indotti dal dubbio devastante, instillatogli dalla moglie, di non essere il vero padre della figlia, la cui educazione è pretesto per la sorda lotta di potere fra i coniugi. Vi ho però letto qualcosa di ancora più vasto. La capacità di anticipare con grande lucidità ciò che agli occhi dei più è apparso evidente solo alla fine del secolo: una società che tollera il padre solo in quanto utile, e che altrimenti lo elimina.
All’epoca la famiglia borghese sembrava ancora solida e strutturata intorno all’egemonia del marito/padre non diversamente dalla famiglia patriarcale pre-industriale, ma di questa aveva conservato solo la forma. Il padre ne era il capo non più in quanto rappresentante terreno dell’ordine simbolico divino, ma solo perchè detentore del potere economico, e già molte delle sue antiche funzioni e prerogative, come l’educazione dei figli, stavano passando sotto il potere materno.
Sono gli effetti di lungo periodo della secolarizzazione e dello spostamento del matrimonio dall’ambito religioso e del rapporto con Dio, a quello civile e del rapporto colla società voluto dalla riforma protestante. Così indebolito e ridotto alla dimensione materiale, il marito/padre non regge alla tensione del continuo giudizio cui è sottoposto, tantomeno alla possibilità di non essere il padre biologico dei suoi figli e trova pace, evirato dalla sua maschilità psichica, soltanto regredendo al grembo materno. E’ infatti la madre che presiede agli aspetti materiali della vita e il potere maschile, emarginando lo spirito, ha creato i presupposti per la sua autodistruzione, a cui contribuirà in modo determinante una scienza che si pone come unico criterio di verità e come possibilità di superamento dei limiti posti dalla natura.
L’opera di Strindberg ha il merito di intuire gli esiti di questo processo con quasi un secolo di anticipo. La scena culminante in cui le persone fisiche (moglie, governante/madre, medico, pastore protestante, ed anche la giovane figlia) si alleano con lo scopo di far interdire l’uomo, anticipa la realtà di oggi.
I personaggi non rappresentano se stessi ma funzioni ed interessi che si saldano sotto l’archetipo della Grande Madre. Ne uscirà sconfitto l’uomo/padre ma, oltre le apparenze di una conquistata centralità, anche la donna divenuta incapace di rapporto col maschile che non sia lotta per il potere.

[01 febbraio 2006]