Il Selvatico e la globalizzazione

globa La nave è ormai in mano al cuoco di bordo,
e ciò che trasmette il megafono del comandante,
non è più la rotta
ma ciò che mangeremo domani.

Soren Kierkegaard
DALLA LISTA DI DISCUSSIONE DEI MASCHI SELVATICI

 

Abbiamo evitato tutto sulla globalizzazione, o perché era spettacolo multimediatico, o perché bisognava occuparsi di trovare i soldi per le vacanze, o perché avevamo altri argomenti meno mediatici su cui parlare (bufale mediatiche tipo la implantologia di sa Dio cosa  su femmine per dar vita  a  femmine).
Intanto Genova esplode, si spara, i potenti fanno lustro di sé, minoranze  Black fanno guerriglia, migliaia di ragazzi e giovani vogliono partecipare  e vivere e capire la loro vita e senza violenza, quasi tutti i registi sono a Genova  a prendere spunti di vita, si parla e si dibatte. Un ragazzo è morto sparato, un buco in testa, una città sprangata, chiusa, morta, il mondo guarda, si interroga, ci pensa.
Ma per i MS, tutto ciò sembra valere poco e poco inserito nel nostro discorso, visto che nessuno ne ha più parlato. Io piango il ragazzo morto e voglio capire e voglio parlare con chi mi può aiutare a vedere oltre e non voglio bollare con un'etichetta di qualsiasi natura  questi avvenimenti e ridurre tutto ciò a un niente. In un movimento di opinione così vasto  ci vedo anche il futuro dei giovani, la loro coscienza, la loro capacità di affrontare la vita. E io sono profondamente deluso da noi, dal nostro silenzio.
Io come Selvatico piango questo, cerco di capirlo e di esserci dentro. Voi fate come  volete.

Giancarlo Viganò


Caro Giancarlo,

forse se i giornali avessero fatto come i MS meno ragazzi sarebbero andati a Genova. Se il G8 lo facessero ai Caraibi senza tanto chiasso si risparmierebbero soldi e morti ma così forse molta gente non potrebbe lucrarci sopra e quindi ci scappa il morto che moltiplica ancora la copertura stampa e televisione e aumentano i ritmi e i prezzi degli spot pubblicitari e si vendono più giornali perché il morto vende e vende meglio se è giovane e sparato e le mamme si dimenticano anche che il morto è un punkabbestia che passa il tempo sui marciapiedi a chiedere elemosine con i suoi cagnolini e a drogarsi perché da morto diventa subito un povero ragazzo di 23 anni, da vivo lo schifavano.
È la guerra Giancarlo, ma non sono sicuro che sia quella con le pistole, è l'altra la guerra, quella che il punkabbestia aveva già perso; non l'hanno ucciso, hanno solo ratificato la sua morte; meglio non parlarne, si soffre anche in silenzio, ti assicuro.
Stammi bene,

Guido Venturini


Caro Giancarlo,

sono anch’io oppresso dal dolore per la morte del ragazzo e per l’eterno spettacolo di sofferenza che la storia dell’umanità presenta: faccio riferimento ai problemi connessi alla globalizzazione. E anch’io come te mi interrogo in merito, senza la pretesa di avere risposte convincenti. E tuttavia ci provo.
Ti ricorderai la nostra gioventù dove tutto era importante tranne noi stessi: chi non ha sognato la Giustizia in Terra per sempre, chi non si è sentito oppresso dalla responsabilità dei morti per fame, chi non ha rinunciato a tutto per questo, all’epoca? Ma abbiamo forse trovato noi stessi in questo modo? Dopo la consapevolezza che il ‘900 tutto intero, compreso i suoi progetti più nobili e generosi, è stato un generosissimo disastro, non ci siamo domandati se la Storia non passa prima proprio per quella strada stretta che avevamo trascurato per donarci agli altri nell’impegno politico? Se questa rinuncia era la via sì generosa e tuttavia in qualche modo scelta perché più facile dell’altra? Se tutto non era politico o se invece il politico era paradossalmente il luogo della fuga da tutto: dal lavoro su di sé, dall’approfondimento circa dove passava davvero il fronte tra vita e morte dentro di noi?
Gli scontri di piazza, anche nel dolore di una tragedia come la morte di un ragazzo di 23 anni,  mi appaiono un Amarcord felliniano, e in qualche modo ancora umanissimi rispetto alla distruzione della coscienza che è già accaduta e sta avanzando. Penso che la vera miseria di cui nessuno parla oggi non è che si ha poco o niente da mangiare ma è, in Occidente, di non sapere più chi è che mangia. E in questo siamo davvero molto più poveri degli affamati di pane. Per questo ci poniamo i problemi “più arretrati” degli altri: sono infinitamente meno gravi e meno angosciosi della perdita dell’umano, maschile e femminile che caratterizza a livello di massa l’esperienza dell’Occidente. E non è che li risolviamo correndo in soccorso del terzo mondo. Questo si chiama truccare il gioco e non porta da nessuna parte, né il terzo mondo né noi.
Ai giovani che si scontrano nelle piazze a Genova che cosa mi sento allora di dire? Che la strada non è quella già pronta e preparata da chi elargisce patenti di buona coscienza ma non ti aiuta a capire chi sei; che le divise, anche quelle da contestatori in tuta bianca o nera in nulla differiscono da quelle di poliziotto se servono a camuffare e nascondere il vuoto; che a volte morire non è un dono di sé ma un atto di disperazione violenta. Mi sento di dire che oggi c’è un livello di attacco gravissimo portato alla loro identità, nelle profondità della loro coscienza. Di guardarsi dunque nel cuore, anche se contemplare il vuoto e il disastro fa paura. Mi sento inoltre di dire che oggi, nascosto, predisposto e pianificato con decenni di anticipo dalle scelte nascoste del Potere c’è un attacco alla vita le cui forme sono assolutamente nuove, prefigurate anche sul piano simbolico dalle “Bufale” che purtroppo non sono tali delle follie genetiche della scienza di oggi. Di non correre pertanto sulle piazze delle false soluzioni ai loro veri e gravissimi problemi, di fronteggiare invece la Cernobyl della propria coscienza  e di lavorare sul proprio spirito per ritrovarlo forte, vitale e gioioso. Di fronteggiare le prospettive apocalittiche di una scienza fuori controllo, specie nel campo della genetica umana.
Già una volta abbiamo detto “tutto è politico” e ci siamo ritrovati privi persino della nostra identità e di ogni valore. ‘68 o G8, come falsi obiettivi, mi sembra un errore che abbiamo già fatto. Come MS un merito in questa occasione a mio avviso l’abbiamo: abbiamo fatto chiarezza proprio su questo equivoco mettendo al centro il vero problema: quello dell’identità e del valore maschile.
Un abbraccio,
Cesare


Era ovvio che ci poteva scappare il morto, un simile dispiegamento di polizia contro un forte e motivato  movimento no-global non poteva che finire grossomodo così. Le motivazioni vanno quindi cercate a monte di tutta la faccenda. Gli otto potenti non fermeranno la globalizzazione neanche se Genova venisse rasa al suolo, al massimo la rallenteranno di un anno. L'ineluttabile avanza. Nel gruppone dei dimostranti ci sono i moderati, gli incazzati, gli estremisti e i guerrafondai come in tutte le aggregazioni sociali (dal club del bridge in su).
Un morto in più o in meno fa poca differenza se paragonato ai bollettini di guerra degli incidenti stradali e soprattutto dei sabati notte. Da morti poco importa come è accaduto. Ma la globalizzazione avanza e con essa la potente macchina grandematerna dei consumi e questa generazione sa ora cosa combattere, chi facendo finta di niente, chi sbottando davanti alla tv, chi discutendo in piazza, chi andando a Genova pacificamente, chi brandendo le spranghe e chi morendo. Tutto come una volta.

Ciao,
Renato


Caro Giancarlo,
anch'io ho seguito con angoscia le giornate di Genova. 
Penso sia importante che tentiamo di parlare di quanto accaduto a Genova dal nostro punto di vista, che è quello dell’archetipo del selvatico. A Genova abbiamo visto infatti un gioco drammatico dove potere, speranza e violenza si sono strettamente intrecciati. Questioni che ci riguardano da vicino, come uomini, maschi e padri.  In particolare mi ha colpito la violenza, di alcuni contestatori e di alcuni reparti delle forze dell’ordine. Se è vero che il selvatico sa trasformare la violenza e l’aggressività del maschio, in forza ed energia che difende e continuamente ricrea la vita, è importante comprendere la violenza che, lasciata a se stessa, dà invece la morte. Per quanto riguarda i contestatori penso che  la violenza dei black block abbia a che fare con il vuoto spirituale della nostra epoca, con l'assenza del padre e di un'identità maschile radicata nella dimensione verticale del sacro. Mi è sembrato di vedere in questa violenza qualcosa di nuovo e di diverso rispetto alla violenza che anch'io ho conosciuto e in parte minima subito negli anni settanta. La violenza di allora si inseriva in un quadro ideologico, dove a molti di noi sembrava possibile una rivoluzione che salvasse i dannati della terra realizzando qui e ora una specie di regno dei cieli: il comunismo. Anche per chi rifiutava la violenza, era possibile intravedere una logica e un senso nell’azione di  chi riteneva che la violenza fosse un mezzo utile per realizzare un fine ritenuto giusto. Invece la violenza dei gruppi che si definiscono anarchici, ma che poco o nulla hanno a che fare con la storia dell’anarchia, mi è sembrata una violenza del tutto priva di scopo come loro stessi dichiarano. Una violenza che ha sviluppato una notevole capacità tecnica e che ha come fine intrinseco la distruzione: una cifra del nichilismo, riflesso oscuro della crisi di valori cui accennavo prima. Questa violenza senza senso e scopo, mi è sembrata il doppio oscuro di un potere, quello dei grandi della terra, anch'esso senza altro scopo che quello di riprodurre e rimirare se stesso nella luce fittizia dei media che ne rifrangono all'infinito l'immagine. Sulla sostanza dei risultati raggiunti dal G8 abbiamo sentito le parole di Alex Zanotelli: ben poca cosa, “solo carità” rispetto alla gravità della situazione. Di fronte alla violenza, mobile e veloce, delle tute nere, mi ha stupito l’ottusità e la lentezza della violenza degli apparati repressivi: incapace di colpire e fermare i violenti si è abbattuta soprattutto sui pacifisti e sugli indifesi. Da dichiarazioni interne a questi apparati sembra che la repressione sia stata affidata a persone inesperte, addestrate tardivamente. Sta di fatto che non sono riuscite a controllare la situazione. La tragedia ha colpito in questi due settori: terribile il dolore per il giovane morto, forte l’angoscia per il giovane carabiniere che ha ucciso! Ma anche il GSF non ha saputo fare i conti con la violenza. Non so se c’entra con il narcisismo di cui parla Claudio. Sta di fatto che proclamarsi pacifisti e non violenti in quella situazione non ha assolutamente pagato. Con la violenza bisogna misurarsi. Non è possibile divedere l’umanità in buoni e cattivi e mettersi dalla parte dei buoni. In questo caso c’è sempre chi si incarica di fare fino in fondo la parte del cattivo. Dal punto di vista della violenza e della possibilità di trasformarla in energia creativa sembra quindi che le giornate di Genova abbiano registrato per tutti un totale fallimento. Per tutti tranne forse che per quelle figure nere che alla violenza si sono consacrate.
Eppure io mi ostino a cogliere qualche segno di speranza: il cammino del nichilismo inaugurato dalla tecnica è giunto ormai ad un punto estremo: la fine delle ideologie ci chiama tutti ad un impegno molto più personale ed individuale di quanto non sia accaduto in passato. Io mi sento chiamato in causa come maschio e come padre e su questo sto facendo un cammino e qualcosa con i maschi selvatici. Anche a Genova ho visto qualcuno che, come noi cerchiamo di fare, si muove al di fuori di schemi precostituiti e fa dell’impegno in prima persona la sua bandiera: i medici di “emergency”, ad esempio, o chi ha pregato, lontano dagli schermi televisivi. Dietro il narcisismo dei leader e di chi ha vissuto quei giorni per contare ed esserci, vedo l’impegno di gruppi e organizzazioni che della questione del terzo e quarto mondo si occupano da anni. Forse devono fare meglio i conti con la violenza di cui volenti o no sono portatori, ma da loro, come da noi maschi selvatici mi auguro possa nascere anche un modo diverso di fare politica.
Paolo Ferliga


Scrive Renato: "Ma la globalizzazione avanza e con essa la potente macchina grandematerna dei consumi e questa generazione sa ora cosa combattere, chi facendo finta di niente, chi sbottando davanti alla tv, chi discutendo in piazza, chi andando a Genova pacificamente ,chi brandendo le spranghe e chi morendo".
Devo dire che io sono molto più pessimista a riguardo. Mi pare che la mia generazione (che è quella del ragazzo morto e del carabiniere della camionetta) sia una generazione allo sbando, una generazione ingannata!
Cari amici, io sono molto orgoglioso di non essere andato a Genova perché mi sento radicalmente estraneo sia al corteo dei potenti sia ai manifestanti tutti, quelli violenti senza ragione e quelli che corrono dietro agli Agnoletti e Casarini, pronti a prendere le distanze dai "cattivi", insinuando che sono poliziotti travestiti, salvo rivendicare poi strumentalmente il cadavere di uno di loro, "compagno morto ammazzato dalla polizia assassina". Questi giochetti sulla pelle degli altri non vanno bene, sono disonesti. Si dice di voler portare la guerra a Genova, e lo si fa con il consenso di "preti del popolo con coscienza sociale" (i don Gallo non sono così diversi dai don Benzi...). E la guerra c'è stata.
Il rammarico grande è per gli ingannati: quelli che si sono trovati in mezzo in buona fede. Che hanno creduto davvero al delirio di onnipotenza degli Agnoletti e Casarini, hanno creduto di rappresentare il Bene, gli interessi di chi non ha voce.
A Genova, tutti, hanno lavorato per la globalizzazione grandematerna. Contro il Selvatico, Mondo e Uomo. Io la vedo così. Li chiamano anti-global ma loro coerentemente parlano di "globalizzazione dei diritti" (leggi, imperialismo dei "valori occidentali moderni" che prevedono, tra le altre cose, l'affermazione della cultura femminista, l'egualitarismo, etc.). Non mi sembra questo il sentiero del Selvatico. Che a me parla di doveri, più che di diritti. Di doveri verso se stessi, innanzitutto. Mi pare che ai "figli senza padre", alla mia generazione, questo, nessuno glielo dica. Sicuramente non glielo dicono gli Agnoletti e i Casarini.
Con sofferenza e rabbia, vi saluto.

Paolo Marcon


La considerazione di Giancarlo che i MS sono stati assenti a tutto quel che è successo sollecita una risposta, o meglio, una domanda; anzi due: - perché avremmo dovuto essere presenti? - come avremmo potuto essere presenti?
1) L'unica risposta possibile alla domanda è che anche i MS sono antiglobalizzazione, e che quindi dovevano al riguardo dire la loro. Mi pare però, condividendo in larga misura le osservazioni di Paolo M., ma anche  le note posizioni di Claudio, che: da un lato c'è modo e modo, e dall'altro
non si tirano le conclusioni coerenti di ciò che vuol dire essere anti-globalizzazione.
Mi ha colpito quello che ha detto sabato sul Corriere Oliver Stone; all'incirca: "sono a favore della globalizzazione, perché essere contro significa aprire il ritorno ai localismi, alla separazione, alla guerra". Ha torto? Mi pare di no. E questo ci pone un bel problema di autodefinizione come maschi selvatici antiglobalizzazione. Antiglobalizzazione vuol dire comunità, autonomia di popoli e culture, radicamento al territorio... Vogliono questo tute bianche e nere? Lo vogliono i sindacati ed i preti? Lo vogliono e lo difendono i maschi selvatici? Non è tutto molto antistorico e poco progressista? Ed è possibile il selvatico senza queste caratteristiche così poco spendibili e, diciamolo, così difficilmente digeribili? Bella questione...
2) Come avrebbero potuto esserci i MS in tutta la storia? Beh, anche il non esserci è un modo preciso di esprimere una convinzione, come non andare a votare. Forse qualche "gesto" era possibile. Sulla statua di Zanardelli qui a Brescia, una mano ha posto un cartello: "G8 - lasciamoli soli". Ecco una cosa che forse si poteva fare: appendere cartelli simili firmati maschi selvatici ai colli di tutte le statue delle città in cui siamo presenti. Io avevo proposto anche un boschetto selvatico, a Genova. Ma da come sono andate le cose anch'io sono molto contento che il nostro movimento là non sia apparso. Mi sentirei tremendamente corresponsabile di un morto e di tanti feriti. Come negare che i "buoni" hanno offerto una straordinaria, per quanto non voluta, copertura ai "cattivi"? Dietro in fila e coperti, poi fuori il passamontagna e via! Per poi sentir dire da Berlusconi che invece voluta era, tutti complici erano? Non ci sto, grazie.
Il morto... Ma come Eugenio, neanche una parola sul morto? Accidenti... ma chi si appresta a tirare addosso un estintore ad un carabiniere armato non lo mette in conto? Chi si appresta ad un corpo a  corpo in una situazione come quella, non lo fa perché pronto - anche - a morire? "Potrebbe essere tuo fratello", dicevano i presenti. Potrebbe essere mio fratello (potevo essere io!) ognuno dei morti per incidente stradale che ogni giorno, ogni giorno! leggo sul giornale locale. Ieri a Brescia sei. 20 dall'inizio del mese, 128 dall'inizio dell'anno. Ho quasi la nausea la mattina, prima di prendere il giornale, perché so che ci troverò su qualcuno morto per incidente, magari conoscendolo.
Vita e morte si mettono in conto; e quando si sfida la morte si rischia a volte di incontrarla, come la turista schiantatasi col jumping; quella morte mi suscita davvero più rabbia che dolore. La rabbia che deriva dal sapere che non la polizia l'ha ucciso, ma tutto il sistema che ha tenuto su quella cosa lì, che se facevano una bella videoconferenza nessuno li avrebbe cagati. E davvero si andava al mare. Abbiamo molto su cui riflettere, e temo non sarà una riflessione facile.

Eugenio Pelizzari