La differenza retributiva fra uomini e donne è una balla

di Armando Ermini

In passato ci siamo già occupati della leggenda metropolitana secondo la quale le retribuzioni femminili sarebbero inferiori a quelle maschili (leggi qui l’articolo: salario uguale per lavoro disuguale), leggenda periodicamente riproposta da giornali e TV che si divertono a sparare numeri a caso, diversi l’uno dall’altro, ma tutti accomunati dal fatto di non citare i criteri con cui quei numeri sono elaborati.
Su La7, ci venne addirittura detto che le donne guadagnerebbero il 50% in meno degli uomini.
Finalmente Il Corriere della sera dell’ 8 marzo inizia a fare giustizia delle bugie citando lo studio dell’”Osservatorio sulla gestione della diversità” dell’Università Bocconi, secondo il quale le differenze retributive fra uomini e donne sarebbero nell’ordine del 2% (quindi praticamente nulle), a parità di qualifica, mansioni, inquadramento e anzianità.
La differenza rispetto ad altre ricerche è notevole. L’Istat aveva stimato, nel 2007, la differenza al 7%, Unioncamere, nel 2008, al 17%, mentre per Eurispes, nel 2009, il differenziale avrebbe toccato il 16%. Il “segreto” della nuova verità si alligna proprio nei criteri della ricerca, che, differentemente da altri studi, non si limita a mettere a confronto il monte salari di uomini e donnne deducendo la discriminazione dal diverso ammontare. “La novità- dice la coordinatrice dell’Osservatorio Simona Cuomo- è che non ci siamo fermati a valutare la differenza tra lo stipendio medio delle donne e degli uomini ma siamo andati a vedere quanto guadagnano esattamente un uomo e una donna a parità di qualifica, mansione, inquadramento, anzianità di servizio”.

Il risultato è quello sopra ricordato, e non potrebbe essere diversamente dal momento che le retribuzioni nel nostro paese sono regolate in massima parte dai contratti collettivi di lavoro (nazionali e integrativi aziendali) che, ovviamente, non fanno discriminazioni per sesso. Non le fanno e nemmeno le potrebbero fare perchè, semplicemente, urterebbero contro un principio cardine della Costituzione.

Solo la malafede o una patente imbecillità scientifica (e dica il lettore cosa è peggio) hanno potuto far scrivere e dire le falsità che abbiamo letto e ascoltato. Rimane un piccolo margine, quel 2% che l’articolo non spiega, ma che potrebbe agevolmente essere fatto risalire o al maggior numero di ore di straordinari che gli uomini si sobbarcano rispetto alle donne oppure a qualche forma di retribuzione “ad personam” che le aziende possono concedere al lavoratore in funzione dei meriti personali acquisiti. Quisquilie, comunque, e giustificate!

Nello stesso articolo si parla anche, però, del fatto che via via che i livelli di qualifica aumentano, il numero di donne diminuisce. Non c’è motivo di disconoscerlo, ma è evidente che si tratta di un problema del tutto diverso dalla inesistente discriminazione retributiva. Nè dalla differenza di qualifiche professionali può essere automaticamente dedotta una forma di discriminazione. Qualsiasi datore di lavoro che non sia folle o autolesionista, con la parziale eccezione degli enti pubblici in cui valgono ancora, si spera per poco, logiche clientelari piuttosto che meritocratiche, ha tutto l’interesse a incentivare anche con avanzamenti di carriera i lavoratori che concorrono al buon andamento dell’azienda, ovvero alla produzione di utili. Il contrario sarebbe in contraddizione col principio del profitto che sovraintende all’economia di mercato. Ed il profitto, lo si sa, non tollera discriminazioni che potrebbero incidere in negativo sulla sua crescita. Questo dicono logica e buon senso. Fattori questi che non sono mai presi in considerazioni da tesi che si fondano sul dogma ideologico secondo il quale uomini e donne, se lasciati liberi di scegliere, avrebbero gli stessi interessi, gli stessi gusti, le stesse passioni, le stesse inclinazioni, gli stessi desideri, e si porrebbero gli stessi obbiettivi . E’ solo partendo da questo dogma indimostrato e indimostrabile che si può desumere una discriminazione sessista dal minor numero di personale femminile nei ruoli più alti. Ed è sempre per questo dogma che si invocano le quote rosa nei consigli d’amministrazione aziendali (in Norvegia è già così), o si pretende che la promozione di un uomo debba essere giustificata e se del caso rifiutata in favore di quella di una donna senza altri motivi che non siano il sesso della promuovenda. E’ già realtà nel pubblico impiego, ma ci si avvia nella stessa direzione anche nel privato.
Se la differenza di genere fosse davvero solo un “costrutto culturale” in sè discriminatorio, logica vorrebbe che i sostenitori di questa teoria richiedessero misure simili dappertutto, anche, ad esempio, per i lavori pericolosi, notoriamente appannaggio quasi esclusivo degli uomini (e sia chiaro che non me ne lamento). Ma chiedere coerenza a costoro è chiedere troppo. In ogni caso non sono neanche sfiorati dal sospetto che, senza che siano in discussione intelligenza e capacità, una donna possa preferire un lavoro meno impegnativo che le lasci tempo per i figli e per la cura della casa e della famiglia, o che un lavoro part-time possa bene attagliarsi ai suoi desideri o alle sue necessità. E quando il dogma è contraddetto dalle parole delle stesse donne, allora i loro “difensori” le accusano di sottomissione psicologica al potere patriarcale.
In un articolo di Neil Lyndon, (4 Giugno 2009, The Daily Mail), dal titolo “Avete avuto quello che volevate, ragazze, smettetela di frignare: Ha il femminismo reso le donne infelici ?” troviamo una significativa conferma. Vi si legge infatti che “un sondaggio pubblicato questa settimana ci dice che le donne oggi sono ben lontane dell’essere felici e desiderano di poter vivere come facevano le loro madri e nonne - non essere costrette a lavorare così tanto e poter spendere più tempo con i loro figli.”

Il dogma dell’ uguaglianza assoluta fra i generi, dunque della loro surrogabilità, nasce con l’industrialismo, e origina da una concezione del mondo che subordina tutti gli aspetti della vita alla produzione ed al consumo di merci, assunti a valore assoluto e fine ultimo dell’esistenza. Concezione questa che ha già prodotto guai immensi negli uomini, i quali sono stati indotti a scambiare il giusto, direi anzi innato desiderio di provvedere al benessere della compagna e dei figli, per il maggior guadagno e il maggior successo possibili. Anche a causa di questo errore, i maschi hanno finito per delegare alla moglie funzioni un tempo di loro competenza, ad esempio l’educazione dei figli, coi guasti di cui più volte abbiamo detto. Si sono illusi che per guadagnare prestigio in famiglia bastasse trasformarsi in bancomat, ma non è così. Moglie e figli hanno bisogno della presenza maschile in casa, e non tanto per cambiare pannolini come vorrebbe far credere un’altra vulgata politicamente corretta, ma perché senza un marito/padre che occupi il posto che gli è proprio, neanche gli altri membri del nucleo familiare sanno trovare il loro.
E’ questo ciò che occorrerebbe far comprendere meglio a tutti, piuttosto che spingere le donne a ripercorrere la stessa strada degli uomini.
E’ paradossale, infatti, che gli uomini che dedicano troppo tempo al lavoro siano accusati di essere padri assenti da chi anela di prendere il loro posto, il che la dice lunga sulla strumentalità dell’accusa e sul suo vero scopo, che esula del tutto dal benessere dei figli e della famiglia. E il femminismo che grida con forza contro il maschilismo di questa società, in realtà si subordina ad una concezione del mondo che non è né maschile né femminile, ma semplicemente antiumana.