L'esperimento di Ezra

ANDREA SCIFFO

ABC

«Io so, non per teoria ma per esperienza, che si può vivere infinitamente meglio con pochissimi soldi e un sacco di tempo libero, che non con più soldi e meno tempo. Il tempo non è moneta, ma è quasi tutto il resto».
Così scriveva il poeta Ezra Pound nel 1933. Settantacinque anni dopo, io sottoscrivo il tutto con le stesse identiche parole dato che sperimento da anni tale verità; per la tredicesima volta, difatti, mi accingo a incominciare un anno scolastico da insegnante. Cioè riprendo l’attività “sul posto di lavoro” dopo quasi due mesi dalla fine del ciclo lavorativo precedente (commissione d’esame di Stato, a.s. ‘06/’07): uno scandalo, nel mondo della produttività, del rendimento e dei manager. Chissà per quanto tempo ancora ci sarà permesso di essere, come professori, degli esemplari zoologici obsoleti (eppure vivi o vegeti) in un habitat in cui tutte le specie hanno già fatto il salto della mutazione…
Vedremo. Nel frattempo, prima che il fato si accorga di aver tralasciato la categoria mia e dei colleghi, approfitto sino in fondo delle prerogative offerte da una professione che dimostra come la “selezione” darwiniana non sempre funzioni: com’è evidente, i docenti di scuola non si sono evoluti con il mutare dell’ambiente circostante, che nel frattempo è diventato per loro sfavorevolissimo sotto tutti gli aspetti; ma, cosa straordinaria, non si sono nemmeno estinti.

Come tutti i sopravvissuti o i reduci, godo di alcuni privilegi. Innanzitutto, vivo come uno stagionale, nel senso pieno del termine: seguo le stagioni assecondandole con il lavoro. È forse uno dei motivi di maggiore nostalgia, per chiunque, ricordare il sapore tipico dell’inizio della scuola: quelle emozioni nuove, che nemmeno i risultati e le delusioni hanno poi potuto rovinare. L’autunno era davvero autunno, quando lo si vedeva rosseggiare d’oro sulle foglie del viale sotto le finestre della classe. Queste sono esperienze che accadono una volta per tutte, in una vita singola, ma si ripetono come un miracolo, a ogni settembre, per ciascuna generazione; e l’emblema sono le castagne cadute sul marciapiede dagli ippocastani di città: senza temere asfaltature né spartitraffico, semplicemente, sgusciano lucidissime dai ricci pungenti. Qualche bambino le raccoglie ancora nell’astuccio o nella cartella.

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In secondo luogo, faccio il padre di mio figlio e l’insegnante dei miei studenti in contemporanea. Chi sostiene di avere dei “compartimenti stagni” bara: tutto è uno, nella vita carnale dell’anima. Non mi ritengo né un buon insegnante né un buon padre (ma, per questo, sono in numerosa compagnia), però ho letto da qualche parte che il padre è colui che dà più di quello che ha, e mi auguro che il teorema valga anche per me, contemporaneamente. Del resto, mi capita di fare lezione sulla famosa scena dell’Iliade (LibroVI,476-479) là dove Ettore incontra per l’ultima volta la moglie Andromaca, e così prega per il figlio Astianatte:

« Zeus, e voi tutti numi, fate che cresca
questo mio figlio […] e un giorno qualcuno
dica: è molto più forte del padre ».

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Infine, a dispetto di quanto insegno a proposito della letteratura di Otto e Novecento (che essa è, almeno da Foscolo, Leopardi e Manzoni, senza padre perché nata in assenza di padre), faccio il padre presente. Da tanti anni sento dire, a proposito dei genitori, che quello che conta non è la quantità ma la qualità, eccetera. In questi primi due anni e mezzo di vita di mio figlio Giorgio, ho trascorso con lui tanto, tantissimo tempo; ora, che ciò sia un bene lo dirà la storia, ma se Hegel aveva ragione posso sperare che tutta questa “quantità” si trasformi in “qualità” e che dunque anche la mia frequente presenza accanto a lui possa costituire un bene. Non certo nell’ordine dei beni immobili ma in un mondo in cui, finalmente, il tempo non sia denaro: l’esperimento è rischioso, lo so. D’altro canto, l’amore è il supplente di qualunque mediocrità (ed è una verità, questa, che Ezra poteva tentare di sperimentare meglio, nella sua severa ricerca della perfezione).

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Le indagini della statistica sono quasi sempre deformate o ritoccate a piacimento: a seconda di quanto si vuole dimostrare (la sociologia politico-economica non fa altro, da quindici anni in qua). Dunque potrei citare, inventandola, quell’inchiesta che rivela come i padri con pochi danari in tasca, che vanno spesso a piedi o gironzolano per casa magari fischiettando, contribuiscono a creare le condizioni propizie per una crescita serena dei loro figli.
Ma veniamo alle madri. Qui vige il timore che Faust provava alla proposta di Mefistofele: “sei tu così corto da aver paura di scendere alle Madri?”, e l’adepto rabbrividiva. È pazzesco, e quindi eloquente, come nessuno osi mai accusare né inquisire pubblicamente le madri, nemmeno dopo i clamorosi casi recenti di infanticidio: mater sempre certa, pater incertus recita il diritto, non senza una sghignazzata sottovoce. E così sia. Questo però implica una conseguenza grave: che i difetti peggiori dei figli, le loro pessime inclinazioni provengono con certezza dal loro genitore femmina; o no?

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Giovanni Segantini fu straordinario pittore di un mondo arcano ed eterno o meglio perenne come le nevi dei ghiacciai: a partire dal 1881 i suoi dipinti si elevarono dai soggetti della campagna alle visioni della montagna, sino al Trittico finale (“La vita, La natura, La morte”, 1896-1899); anche lui saliva, assieme all’amata moglie, da Milano alla Brianza ai Grigioni, mentre la sua paternità cresceva benedetta da uno, due, tre e quattro figli. La morte lo colse prematuramente, su per le valli alpine del Maloja, tra le vette innevate.

Adesso, però, si annuncia un’epoca o un’era nella quale anche i ghiacci perenni si sciolgono. Questo occorre tenere presente quando si parla di un Segantini artista “della natura” per non incorrere in un equivoco grave: l’amore per la maternità, onnipresente sulle tele segantiniane, è tale proprio perché è visto con l’occhio paterno. Soltanto uno sguardo di padre può incorniciare, contenendola e fecondandola, una scena di “Madre con bambino”: non è importante che accanto via sia, assorto, un san Giuseppe cioè un padre putativo; tutti i padri sanno che amare davvero la prole significa doverla adottare, anche se si ha generato col proprio seme. Dopo che Gesù Cristo è venuto nel mondo e se n’è andato in quella maniera che sappiamo, l’incarico è di prenderci in affido gli uni gli altri. Sino al momento in cui un genitore può diventare padre: quando cioè scopre che la cosa più grande che può fare per i suoi figli è continuare ad amare la madre che li ha partoriti.


Settembre 2007
[3. CONTINUA]

 

30-01-2010