Nei luoghi del padre: l'accesso maschile al selvatico

di Matteo Meschiari*, www.matteo-meschiari.com


La nostalgia del selvatico ci accompagna da sempre. Non è un’invenzione postindustriale o una reazione emotiva o intellettuale (tra inutili sensi di colpa e conservazionismo intransigente) alle smagliature sempre più gravi che riscontriamo nel tessuto ecologico. L’idea di Wilderness, per quanto ci riguarda come specie, nasce in una grotta paleolitica con il primo dipinto di animale.
Certamente l’uomo di 40.000 anni fa viveva situazioni fisiche e mentali che noi, con lo scarto e i guasti di tutta la storia della civiltà, definiremmo senza esitare il “selvatico”. Ma è pur vero che la tensione emotiva e concettuale che si percepisce nell’arte rupestre della grotta Chauvet (la più antica a conservare immagini prodotte dall’uomo) o di Lascaux, è una tensione che presuppone anche la consapevolezza di una distanza, di una contiguità che mostra anche un forte senso di separatezza.
Alcune teorie spiegano l’arte rupestre come il tentativo di esternare e superare un senso di colpa ancestrale per l’eccidio perpetrato dall’uomo nei confronti di alcune specie animali. C’è chi sostiene ad esempio che certi miti Maya concernenti il giaguaro (con l’adozione simbolica del cucciolo sottratto alla madre) siano in realtà dei riti apotropaici per sventare la vendetta di tutta la specie felina, che fu oggetto di uno sterminio sistematico in un’epoca anteriore a quella Maya. Che il felino fosse il nostro principale antagonista nella catena biologica e in seguito in quella alimentare non è dubitabile, e non è escluso che il tema della grande caccia di Assurbanipal nei bassorilievi di Ninive sia il riflesso neolitico di una più antica reazione al selvatico: una grande caccia tesa all’eliminazione, non più al mero sostentamento.
Ma senza scivolare in illazioni suggestive, basta guardare una grotta istoriata del Paleolitico per rendersi conto che l’animale dipinto era rappresentato non come una realtà assimilabile alla natura umana, ma come alterità, come l’orizzonte altro delle riflessioni e delle passioni umane. In altre parole, per essere investito di un valore simbolico e metaforico, l’animale doveva essere affine nella diversità, e dunque, quando proviamo a interpretare l’arte rupestre cercando corrispondenze con l’universo mentale dell’uomo, non dobbiamo dimenticare che il punto di partenza più logico è invece quello della distanza, per noi come per il cacciatore di 40.000 anni fa. L’animale era insomma tutto ciò che non è l’uomo, tutto ciò che l’uomo avrebbe voluto essere senza riuscirci, tutto ciò che può rappresentarci ma senza davvero coincidere con ciò che siamo.
Anche la tecnologia che abbiamo sviluppato dagli esordi della specie è paradossalmente un mezzo che ci allontana dallo stato selvatico ma che in origine voleva riguadagnarlo a dispetto delle nostre debolezze: privi di artigli e pelliccia, più lenti della massima parte degli animali di cui ci nutriamo, abbiamo dovuto sopperire ai nostri difetti con invenzioni accessorie che accorciassero la distanza tra noi e la fauna selvatica. Solo quando questa tecnologia ha dimostrato i suoi potenziali autodistruttivi la abbiamo posta all’origine della nostra separatezza dal selvatico. Ed è vero, ma come nel mito di Icaro, o come per l’anello di Salomone: volevamo volare, correre, cacciare e anche comunicare come fanno gli animali. E se guardiamo l’essenza di molte fiabe del mondo scopriremo che esprimono sempre una grande nostalgia del selvatico, e già da prima che la sua distruzione fosse irreversibile.
La più antica opera mai scritta, la saga babilonese di Gilgamesh, può essere letta come il pianto per una consapevolezza forse ancora più grave: tremila anni prima di Cristo l’uomo prende coscienza del fatto che dentro di sé la via verso il selvatico è smarrita per sempre. La storia è quella di una grande amicizia maschile tra Gilgamesh re di Uruk e di Enkidu, il primo uomo selvatico della letteratura di tutti i tempi: nato dall’argilla dei monti, irsuto e mite, vive con gli animali della steppa, si abbevera con loro alle polle d’acqua, non li insidia per mangiarli. Gilgamesh viene dunque a sapere della sua esistenza, e subito se ne invaghisce come in molti grandi sodalizi maschili.
Il poema inizia mostrandoci il re di Uruk che si annoia, che insidia vergini e donne sposate, che vaga in una città geometrica facendo la spola tra il tempio della madre Ninsun e la sala del trono. Solo un suo pari potrebbe salvarlo dalla vacuità che lo circonda, e questo pari è Enkidu: come lui è un senza-padre, come lui è forte più di chiunque altro, come lui è separato dal suo doppio. Per attirarlo a sé Gilgamesh si affida alla prostituta Shamkat, che deve sedurlo e strapparlo alla steppa. Shamkat lo seduce, e attraverso le arti della donna Enkidu si civilizza, perde i peli e l’ingenuità, mentre gli animali sentendo il suo nuovo odore lo rifuggono. Enkidu mangia adesso il pane, beve birra, e infine decide di andare nella città di Uruk per conoscere Gilgamesh.
Dopo un primo confronto violento, i due diventano i migliori amici del mondo, ma Gilgamesh propone a Enkidu un’impresa fatale: andare a uccidere il mostro Kubaba annidato in una foresta di cedri. Enkidu ha cattivi presagi, vuole distogliere l’amico, ma Gilgamesh insiste, la spedizione si fa, i due uccidono Kubaba, e come primo gesto della vittoria abbattono la foresta di cedri. È proprio a questo punto che Enkidu cade malato come aveva visto nel suo sogno. Gilgamesh parte allora alla ricerca di una cura che guarisca l’amico, si spinge fino alla fine del mondo, ma invano. Nel frattempo Enkidu muore e Gilgamesh, il più potente dei re, vede rafforzato il suo regno e la sua conoscenza delle cose, ma ha perduto per sempre il suo doppio selvatic

Tutta la saga assomiglia fortemente a una parabola ambientalista, ma l’episodio di Kubaba deve farci riflettere. In tutte le versioni del poema il mostro non viene rappresentato, è piuttosto un’entità panica che pervade la foresta, e anche se si lascia trafiggere e decapitare resta vago fino in ultimo. Eppure il legame con Enkidu è forte: la morte di Kubaba e il taglio della foresta è all’origine della morte di Enkidu. Come mai? Semplicemente perché Kubaba è lo spirito della foresta e la foresta rappresenta il lato selvatico, dunque Enkidu ne è colpito per riflesso? Ma cosa lo lega veramente a Kubaba? Dicevamo che Gilgamesh ed Enkidu sono entrambi dei senza-padre, ma non è esatto. Gilgamesh ha un padre latente, un nome minore nel pantheon babilonese offuscato da Ninsun, la Grande Madre onnipresente, autoritaria e possessiva, guida e consigliera del figlio a ogni snodo cruciale della sua vita. Enkidu è invece un senza famiglia, perché è figlio di dei molto più antichi, dei che il pantheon babilonese, subentrando ai primi, ha offuscato a sua volta.
Figlio di un’epoca precedente ai fatti della saga, Enkidu è il residuo di un’età anteriore al diluvio, allo sciogliersi dei grandi ghiacciai, è insomma l’uomo del Paleolitico come poteva vederlo l’uomo del Neolitico, è l’uomo nuovo che guarda se stesso attraverso il diaframma di un passato ormai perduto. Il padre di Enkidu sono i monti, il suolo, il bosco, e forse il padre di Enkidu è proprio Kubaba, alle cui sorti è immancabilmente legato: da un lato c’è Gilgamesh e la madre Ninsun, dall’altro Enkidu e Kubaba, l’unica figura che possa essergli associata in equilibrio strutturale, e che appartenga a un mondo pre-babilonese. Cosa possiamo desumerne? Se davvero Kubaba è il padre di Enkidu, allora possiamo stabilire una connessione forte tra natura maschile, essenza paterna e lato selvatico, esattamente come la natura femminile e materna di Ninsun è legata alle sorti della città. Non è difficile vedere che Gilgamesh ed Enkidu sono gemelli, ma mentre il primo segue le sorti vittoriose e celesti della madre, il secondo deve soccombere perché il primo trionfi, portando con sé il vecchio mondo ancestrale, pre-urbano e terrestre.
Nonostante l’avvento del Neolitico abbia coinciso con una più forte divisione dei compiti, delle funzioni e dei sessi, generando una società di dominatori e di dominati (di uomini attaccati al potere e di donne costrette a ricrearlo negli interstizi della società), nella sfera privata il rapporto tra maschile e femminile si è polarizzato e rovesciato al di là delle apparenze storiche: mentre individui di sesso maschile si femminilizzavano all’ombra delle loro dee-madri, individui di sesso femminile sognavano di mascolinizzarsi assumendo gli attributi dominanti degli dei. Millenni di civiltà hanno tenuto i due mondi distinti e paralleli, ma la realtà è che il patriarcato sociale ha sempre avuto il suo doppio in un sotterraneo matriarcato psicologico.
L’invenzione surrettizia delle Amazzoni incarna ad esempio un fantasma antico e non solo femminile, un mito che ha molti paralleli nel moderno, e che esprime un delirio di onnipotenza nato da una censura per la donna, e da un desiderio autodistruttivo e nichilista per l’uomo: senza scomodare le frontiere solipsistiche della fecondazione assistita, il mito moderno di un Paleolitico matriarcale è un’invenzione che assomiglia tanto a un lavaggio della coscienza, forse proprio per l’uccisione di un padre troppo selvatico. Si tratta di un modo come un altro per raffigurarsi il mondo a immagine e somiglianza di un’epoca così confusa da doversi proiettare in un passato fittizio per giustificarsi, un’epoca in cui la latitanza fisica e psicologica del padre risveglia il vecchio fantasma di Enkidu, colui che appartenendo al selvatico, colui che potendo tenerlo in vita, ha invece eliminato il proprio padre per dare alla madre un potere incontrastato.
Il quadro è tragico: pare quasi che non possa esistere civiltà senza l’eliminazione del padre, e un po’ come Zeus castra Cronos e Edipo uccide suo padre, così anche il loro archetipo Enkidu uccide il principio maschile ancestrale nella figura di Kubaba, e tutto questo per amore di Gilgamesh, per favorirne l’ascesa, e in fondo per favorire l’ascesa di sua madre Ninsun. Il lungo pianto di Gilgamesh per la morte dell’amico è tutto ciò che resta, tra sorti selvatiche compromesse e civiltà senza freni: un canto che non si è mai spento, e che oggi viene solo riattualizzato dall’urgenza ambientale, dall’ecocidio che stiamo perpetrando come l’urbano re di Uruk che taglia una foresta di cedri millenari.
Ma il punto è un altro, e ha radici così lontane da sfuggirci: non dobbiamo cercare il selvatico dentro di noi, perché Enkidu, il nostro lato selvatico, è morto in realtà per sempre, ed è morto da quando siamo diventati quello che siamo come specie, da quando abbiamo soppiantato i Neanderthal, e anche da prima. A volte il lato-Enkidu torna come un ricordo, come un racconto, come un sogno, a volte si materializza in un incubo di violenza incontrollata perché repressa troppo a lungo, ma il selvatico è troppo vasto per coincidere con il nostro rimosso, con l’istinto e con l’aggressività che ci resta. Il selvatico non siamo noi in qualche recesso nascosto o quando allentiamo il controllo, il selvatico è invece il nostro modo di rapportarci al mondo selvatico, quello di fuori, quello fatto di foreste di cedri e di animali che si abbeverano alle polle nella steppa. Possiamo farlo in due modi: assecondando la madre o cercando il padre. La prima strada ha prodotto ciò che conosciamo, la seconda, questa sì, dobbiamo trovarla in noi risvegliando il padre che abbiamo ucciso.
Il punto in definitiva è che c’è un modo maschile e un modo femminile di vivere e pensare il selvatico: c’è un modo per la madre, quando si va a caccia per portarle la selvaggina, e c’è un modo per il padre, che cerca di seguire le piste della selvaggina per arrivare in un luogo così lontano da poter dialogare con essa. Non possiamo più essere Enkidu, possiamo solo essere Gilgamesh, ma mentre Ninsun grida dai recessi della città chiedendoci di tornare indietro, possiamo invece andare avanti nella foresta di cedri, per parlare con Kubaba. Potremmo allora scoprire che per quanto ci spaventi è nostro padre, che la storia selvatica si tramanda ancora da padre a padre, e che se il padre è morto per colpa nostra possiamo forse ritrovarlo facendoci a nostra volta padri.

«Trovammo quel luogo quando le ultime alci andarono a rifugiarsi lassù e la fronte del ghiacciaio si ritirò sotto lo sperone roccioso. Tra alcuni larici nani c’era uno spiazzo di terra battuta dove ci accampavamo e preparavamo le armi. L’ultima volta che ci salimmo da cacciatori lasciammo dietro di noi delle punte di freccia e dei raschiatoi che la terra ricoprì, cancellando con le nostre tracce la memoria di chi eravamo e di quello che avevamo fatto. Ma la memoria riemerge come una radice dal terreno. Per questo la nostalgia delle pellicce gelate ci ha fatto muovere nel tempo. E per mille uomini che coltivavano la terra e riempivano i granai delle città-stato ce n’era uno che si smarriva dietro la selvaggina o dietro il suo nome. Per questo siamo una tribù che non sa di esistere e che forse non esisterà mai, una tribù in cui il padre è figlio di suo figlio, in cui il figlio è padre di suo padre, perché per tutta la vita abbiamo cercato di generare in noi le nostre origini. E se ancora sentiamo sfaldarsi tra le dita i grumi di sabbia e brina delle pellicce dei grandi pachidermi, cinquemila anni dopo vogliamo ancora andare a vedere il permafrost sfaldarsi sotto la spinta delle onde estive nelle isole del Mar di Siberia, aspettando di veder spuntare negli stagni viola di zanzare le costole gialle e le zanne di mammuth che i nostri figli di allora hanno inseguito fin là. In questo modo siamo andati ovunque. Siamo diventati pazzi a forza di modellarci la mente sulla geografia della regione magellanica e siamo morti soli tra gli acquitrini del Nord America dove non c’era niente che valesse la pena cercare tranne le forme della terra. Ma se era l’inverno del nostro scontento, le paludi attraversate dai grandi cervi erano il luogo di mezzo tra il mondo che avevamo fabbricato e la terra promessa da Dio».

• Per una bio/bibliografia di Matteo Meschiari visita il suo sito in http://www.matteo-meschiari.com/biobibliografia.htm

[07 marzo 2006]