Amando la terra troveremo il senso della vita

C'è un vecchio saggio a Henry County, un paese del Kentucky, USA. Si chiama Wendell Berry (nella foto), 84 anni, è un tipo forte e sereno e manda avanti con la moglie una piccola fattoria, in una zona dove la sua famiglia coltiva campi da oltre due secoli.

Non solo, però: i Berry si occupano appassionatamente della terra ma fanno anche altro: suo padre era avvocato, lui è agronomo, scrittore, ha girato il mondo per studiare tutti i tipi d'agricoltura, partendo da una borsa di studio per studiare quella Toscana di cui lo colpì (allora) la creatività e flessibilità alle esigenze del terreno (di recente riportò invece impressioni diverse). Berry è un faro della cui luminosità ci si accorge man mano che il tempo passa e si scopre che le cose che lui aveva detto 30, 50 anni fa si sono puntualmente avverate. Michael Pollan, docente di giornalismo all'Università di Berkeley, racconta nell'introduzione a Mangiare è un atto agricolo (Lindau), di come dopo un bel po' che scriveva di "cibo" per i grandi giornali americani, pensando che l'agricultura non interessasse a nessuno, scoprì leggendo Berry che senza capire come funziona la terra, tutti i discorsi sul cibo ed anche sul malessere dell'uomo contemporaneo non stavano in piedi. Non aveva tutti i torti neppure il filosofo materialista tedesco Feuerbach a scrivere nel 1862: L'uomo è ciò che mangia (nel saggio: Il mistero del sacrificio), dove spiega che: «Perché tu introduca qualcosa nella tua testa e nel tuo cuore è necessario che tu abbia messo qualcosa nello stomaco». Come oggi spiega anche l'antropologia, il nutrimento e le condizioni della terra che lo produce determinano la salute e la psiche dell'uomo: il suo stato d'animo, la sua creatività, i suoi progetti. Le medicine alternative, che guardano anche ai grandi medici della storia, da Galeno a Paracelso a Friedrich Hahnemann (fondatore dell'omeopatia) a Ita Wegmann (medicina antroposofica), sostengono la stessa cosa: il cibo, e il movimento per aiutare il corpo a trasformarlo e metabolizzarlo, è centrale nella felicità e salute dell'uomo. Tuttavia, proprio le esperienze e gli scritti di Wendell Berry hanno dimostrato nel secolo precedente e nostro che proprio la terra fa sì che non si tratti di una questione solo materiale. Come infatti l'astronomo Keplero aveva già intuito nel 1500 e poi il materialismo e l'industrialismo dimenticato, la terra è un organismo vivente, come tutto ciò che da lei prende vita, dalle piante agli animali che se ne nutrono. Nel rapporto con questa vita naturale è decisivo lo spirito e l'atteggiamento affettivo verso la terra e ciò da cui essa prende e dà vita. La civiltà industriale ha nei confronti del territorio un atteggiamento di rapina che non produce niente di buono né per la terra, né per l'uomo che la sfrutta e il cibo che ne trae. È, dice Berry, un'economia e una cultura da "avventura di una notte". "È stato bello - dice l'amante industriale - ma non mi chiedere come mi chiamo". Insomma, rapporto zero, affetto non se ne parla, sensualità in proporzione. Il risultato: intossicazione fisica e psichica sicura. Anche Franco Fornari, lo psicoanalista italiano del dopoguerra più importante e aperto verso la società, notava in un suo saggio del 1970, con l'economista Franco Momigliano, come l'economia agricola sia un "miracolo d'amore", rispetto alla predazione nei confronti della natura e dell'ambiente inaugurata dallo sviluppo industriale. Un tema da cui sinistra e destra continuamente scantonano, ma che si impone con la forza dell'evidenza al cittadino del terzo millennio. Wendell Berry descrive il malessere creato dal saccheggio della terra e l'industrializzazione dell'agricoltura (il suo Kentucky, che anch'egli coltiva, è una delle grandi riserve produttive delle multinazionali del tabacco), con l'"economia urbano-industriale che usurpa sempre di più quella agricola, ritmi di lavoro che aumentano … dominata da un'economia … che sfrutta la terra e le persone con un'avidità senza limiti". Adesso - nota Berry - "le grandi aziende di capitale, internazionalizzate e prive di qualsiasi radicamento, si apprestano a sfruttare l'intero pianeta in nome di slogan come globalizzazione, libero commercio e nuovo ordine mondiale". Il malessere descritto da Berry è stato confermato da fenomeni come la vittoria di Donald Trump, o la Brexit, dove il voto degli agricoltori fu decisivo. Non si tratta di passatismo o di assistenzialismo. C'è dietro un fatto psicologico elementare: il bisogno di stare bene. La vita di una natura non travolta dall'industrializzazione, i rumori dei suoi elementi, dell'acqua che sgorga, del vento, fanno stare bene. Rendono la vita bella, preziosa, qualcosa di cui ringraziare. Berry racconta che "la mente ruralista nasce dall'amore dei campi e si ramifica in buona agricoltura, buona cucina, buona alimentazione e gratitudine nei confronti di Dio". Come fa anche la boschiva "mente silvana, che parte dall'amore per le foreste e si ramifica in silvicoltura, carpenteria, falegnameria di qualità, e gratitudine nei confronti di Dio." La gratitudine per il dono della natura infatti è la base per l'amore della vita e il benessere personale, e la pratica del ringraziamento è centrale nello star bene, al contrario di quella del lamento. Viene però abbandonata quando lasciamo la natura e ciò che ci offre per inseguire - dice Berry - le soddisfazioni promesse dalla società dei consumi, continuamente trasferite da un prodotto all'altro, che ci lasciano però inappagati perché al contrario di quelli naturali sono morti, senza vita propria al di fuori dei meccanismi tecnici. Nella concretissima visione di Wendell Berry la terra viene valorizzata non in competizione con gli altri, ma per il piacere innanzitutto fisico, quindi anche spirituale che ci assicura. Liberandoci così dalla nevrosi del troppo, l'inutile, dall'esibizione, per andare invece al sodo della vita: l'amore per ciò che si fa e per dove si è, per chi abbiamo accanto, che vive con noi, di cui condividiamo lingua, storia, tradizione, protezioni naturali e spirituali. Per uscire dalla corsa infernale dell'industrialismo inutile tocca fare "una scelta semplicissima: cambiare o essere cambiati". Se si sceglie la vita, e non venire sostituiti da robot o cambiati da appositi programmi genetici, si esce dalle categorie ossessive di produttore o consumatore per avvicinarci a quelle di "membro di una famiglia, di una comunità, o di un territorio, nelle quali esiste un inevitabile interesse a far durare le cose", scegliendole tra quelle veramente buone o utili e davvero belle, legate anche all'anima del territorio. Le conferme del valore del rapporto tra territorio e le sue tradizioni produttive sono tante, anche nel nostro paese. Non è un caso se a Milano il più grande successo commerciale è quello del salone del mobile, con tutto l'indotto della tradizione di falegnameria e industria boschiva del territorio. O, nell'industria italiana, ha particolare successo la moda, forte degli antichi saperi artigianali sparsi nei diversi territori. Spesso la coesione delle famiglie e delle comunità va già insieme all'affermazione economica , anche se c'è molto altro da fare. In Italia il maggiore reddito pro capite è nella provincia di Bolzano, una di quelle dove i legami con la comunità e coi prodotti del territorio sono più forti, e più sentiti la necessità di difenderne le qualità, anche a costo di sacrifici importanti. L'attenzione e l'amore per la natura e i suoi territori è indispensabile per ritrovare la nostra umanità. La grandiosità tecno-industriale ha rivelato tutti i suoi pericoli. "Superata la scala dell’umano - spiega Berry in Il corpo e la terra. (Libreria Editrice Fiorentina) - le nostre opere non ci liberano più, ci rinchiudono. Tagliano l'accesso alla parte selvaggia della Creazione, quella dove è obbligatorio poter andare per poter rinascere”. L'autentica trasformazione umana avviene nella relazione con la natura vivente, non nelle macchine.

 


Articolo di Claudio Risé, da “La Verità”, 3 giugno 2018, www.claudio-rise.it